Ginevra, ONU: L’arte italiana celebra i Diritti Umani al Palazzo delle Nazioni

Emilio Isgrò: Enciclopedia Treccani, Vol. nn. II (Dinastia), IX (Radici), XIX (Italia), 1970,
3 inchiostri su libro su scatola di legno e plexiglas, cm 60 x 112 x 40 cad.
Collezione Peruz. Ph. Courtesy Archivio Emilio Isgrò

Ginevra, Palazzo delle Nazioni

4 dicembre 2023 – 15 dicembre 2024

Mostra presentata dal Ministero italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale in collaborazione con Associazione Genesi

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana

A cura di Ilaria Bernardi

Il 10 novembre del 1948, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava e proclamava la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, uno dei più significativi, e attuali, documenti della storia recente del mondo.
75 anni dopo, dal 4 al 15 dicembre del 2023, l’Italia si fa promotrice, al Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, dell’importante mostra “Arte italiana e Diritti Umani”, a cura di Ilaria Bernardi, promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale in collaborazione dell’Associazione milanese Genesi, che dal 2020 è impegnata nella difesa dei Diritti Umani attraverso l’arte contemporanea.

La mostra è inclusa della mostra nel quadro della campagna promossa dall’ Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) per il 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Allo scopo di porre in luce come l’arte italiana dal dopoguerra ad oggi abbia sotteso urgenti tematiche sociali, peraltro affini a quelle espresse dalla Dichiarazione, sono stati selezionati 16 artisti, italiani per nascita o naturalizzazione, di cui tre senior emersi negli anni Cinquanta e Sessanta, quindi dopo l’emanazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e tredici emersi negli ultimi trent’anni, quindi dopo l’emanazione La Dichiarazione e il Programma d’Azione di Vienna del 1993 che segnarono l’inizio di un rinnovato impegno per rafforzare e sviluppare l’insieme degli strumenti giuridici posti a tutela dei diritti umani, costruiti sin dal 1948 sulla base della Dichiarazione Universale.

Ad accogliere le opere dei 16 artisti selezionati sarà la grande sala di fronte alla Sala del Consiglio dei Diritti Umani. Ad ogni artista sarà dedicato uno spazio all’interno del quale sarà esposta una o due sue opere, corredate da un testo di approfondimento che le collega idealmente a un tema focale della Dichiarazione. La mostra delineerà così una narrazione per “capitoli” successivi (gli spazi dei singoli artisti) che nel loro insieme saranno capaci di ripercorrere i concetti chiave della Dichiarazione Universale

Al centro della Sala del Consiglio dei Diritti Umani saranno collocate le opere dei tre grandi maestri: la Venere degli stracci (1967) di Michelangelo Pistoletto, tre esemplari dell’Enciclopedia Treccani (1970) di Emilio Isgrò, e Atleti di Ercolano (1985) di Mimmo Jodice, che, se osservate oggi, sembrano rinviare idealmente a tematiche molto attuali quali la sostenibilità ambientale, il diritto all’istruzione e la tutela del patrimonio artistico.

Attorno a questo nucleo centrale, si snoderanno, l’uno accanto all’altro, gli ambienti dedicati agli artisti delle generazioni successive, le cui opere, in base ai temi ad esse intrinseci, verranno associate a un tema cardine della Dichiarazione.

Marinella Senatore: NUI SIMU [That’s Us], 2010,
video HD monocanale, stereo, colore, 15’ Courtesy l’artista, Riso – Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, Palermo e La Biennale di Venezia, Venezia

Il video NUI SIMU [That’s Us] (2010) di Marinella Senatore realizzato attraverso la libera partecipazione di ex minatori di Enna, sarà utile per ricordare il diritto a un lavoro dignitoso, mentre l’opera They Will Say I Killed Them (2017-2018) di Danilo Correale, reinviando a sei film mai girati perché bloccati dalla censura, permetterà di approfondire il tema, già insito nell’opera partecipativa di Senatore, relativo al diritto di libertà di espressione.

Associata alla libertà di espressione e al contempo al tema dei diritti alla salute, sarà invece Still life (2023) di Irene Dionisio che riporta alle tragedie e all’isolamento del Covid e al ruolo suppletivo affidato in tale contesto alla dimensione digitale. Utili per ricordare il diritto alla salute saranno altresì On Walking (2017) e Alfabeto (2018) Rossella Biscotti che narrano di una complessa riabilitazione ottenuta anche grazie al progresso della tecnologia medica.

Ulteriore diritto fondamentale è quello a un ambiente sano e sostenibile, che permetta all’uomo un contatto diretto con la natura. A tale diritto saranno associate le Meridiane (2020) disegnate da Stefano Arienti seguendo le luci e le ombre create dal sole sulla carta, e En route to the South (2015) and En route to the South, learning to be nomadic (2017) di Elena Mazzi che affrontano il tema della agricoltura sostenibile con particolare attenzione all’apicoltura.

Senza titolo (2019-2021) di Francis Offman, sottendendo la questione della diaspora, della ricerca di radici e di identità, sarà invece efficace per parlare del diritto alla memoria.

La questione della condizione femminile, così importante nel mondo di oggi, sarà analizzata attraverso tre opere che sottendono all’ambiente domestico come possibile luogo della violenza: si tratta dell’istallazione Mirror no.12 (2021) di Silvia Giambrone (2021), nonché di Home Is Where You Leave Your Belt (2019) e di The Fire Bites (2019) di Monica Bonvicini.

Fondamentale è altresì il diritto all’infanzia che sarà trattato mediante due lavori: il video The Picture of Ourselves (2013) di Rä di Martino che ha per soggetto principale una bambina; e il dittico Self Portrait as my Mother on the Phone e Self Portrait as my Father on the Phone (2019) di Silvia Rosi che, immedesimandosi con i suoi genitori, cerca di riappropriarsi delle sue radici.

La mostra si concluderà con affondo sul diritto alla multiculturalità, al quale saranno associate le opere di due giovanissimi artisti: Observer les Ètoiles (2021) di Victor Fotso NyieNaître au monde, c’est concevoir (vivre) enfin le monde comme relationship #1 (2022), e Paysages Corporels – elle n’est pas déracinée di Binta Diaw.

“Questa è l’essenza della diplomazia culturale: utilizzare la nostra arte, la nostra cultura, il nostro patrimonio per esprimere un messaggio politico, a difesa dei nostri valori fondamentali. E con ottimismo e fiducia guardiamo alle generazioni più giovani, alla loro consapevolezza e determinazione, affinché la tutela dei diritti umani sia anche in futuro sempre più tenace e incisiva” (Alessandro De Pedys, Direttore Generale per la diplomazia pubblica e culturale).

“La mostra Italian Art and Human Rights ha un’elevata valenza artistico-curatoriale e un risvolto di estrema rilevanza internazionale per l’Italia. La scelta del progetto espositivo proposto dall’Italia per accompagnare il programma delle celebrazioni del 75° anniversario della Dichiarazione Universale dimostra infatti l’impegno e la sensibilità non solo dell’arte, ma anche delle istituzioni italiane a garanzia e difesa dei diritti umani” (Letizia Moratti, Presidente Associazione Genesi).

“Nella consapevolezza di non poter essere omnicomprensiva di tutti gli artisti italiani che si sono occupati di tematiche collegabili a quelle espresse dalla Dichiarazione Universale, la mostra Italian Art and Human Rights desidera delineare un racconto che, seppur parziale, riesca a toccare i temi cardine della Dichiarazione attraverso specifiche opere di importanti artisti italiani di differenti generazioni” (Ilaria Bernardi, curatrice della mostra).

Il coordinamento della mostra è affidato all’impresa culturale Suazes e a Silvana Editoriale che ne pubblicherà un’importante catalogo bilingue (ita/eng) curato da Ilaria Bernardi, riccamente illustrato e con testi dello storico Marcello Flores e della curatrice, oltre a testi istituzionali dell’Onorevole Ministro Antonio Tajani, del Direttore Generale per la diplomazia pubblica e culturale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Alessandro De Pedys, del Direttore Generale per gli Affari Politici e di Sicurezza del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Pasquale Ferrara, del Rappresentante Permanente dell’Italia presso le Nazioni Unite Ambasciatore Vincenzo Grassi, della Presidente dell’Associazione Genesi Letizia Moratti.

Mimmo Jodice: “Atleti di Ercolano” – Museo Archeologico, Napoli, 1985,
(data del negativo: 1985; data della stampa: 1997).
Stampa Fine Art su su carta baritata Silver, cm 64,5 x 212,2. Collezione Renata Novarese.
Ph. Courtesy Paolo Pellion, Torino

Ufficio Stampa
STUDIO ESSECI – Sergio Campagnolo
Via San Mattia 16, 35121 Padova
Tel. +39.049.663499
referente Simone Raddi, simone@studioesseci.net
www.studioesseci.net

Venezia: David Seymour, una grande mostra a Palazzo Grimani

Venice, Italy, 1950 © David Seymour/Magnum Photos

“Tutto ciò di cui hai bisogno’, disse una volta mentre un noto fotografo parlava della psicologia dietro una delle sue foto, ‘è un po’ di fortuna e muscoli sufficienti per far scattare l’otturatore.’ Avrebbe potuto aggiungere: un buon occhio, un cuore e un fiuto per le notizie. Perché tutti questi erano evidenti nel suo lavoro”.

(Judith Fried su David Seymour)

Venezia , Museo di Palazzo Grimani 

6 dicembre 2023 – 17 marzo 2024

Mostra promossa dalla Direzione regionale Musei Veneto – Museo di Palazzo Grimani in collaborazione con Suazes.

Con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia a Roma.

A cura di Marco Minuz.

Molti non sanno che la celebre fotografia realizzata a Venezia che coglie l’approdo apparente del gondoliere alla stazione di rifornimento della Esso sul Canal Grande è stata realizzata da David Seymour nel 1950 in concomitanza di un progetto dedicato all’Europa del dopoguerra.

In quell’occasione il fotografo realizzò un importante reportage dedicato a Venezia caratterizzato da uno sguardo attento, curioso e a volte ironico. Scatti che ritraggono momenti di vita quotidiana o particolari specifici della città lagunare come gli onnipresenti pennuti dell’universo veneziano, i colombi.

È a David ‘Chim’ Seymour che il Museo di Palazzo Grimani (Direzione regionale Musei Veneto del Ministero della Cultura) dedica, dal 6 dicembre 2023 al 17 marzo 2024, il secondo appuntamento con i maggiori protagonisti della fotografia internazionale del Novecento e che hanno, nella loro carriera, scelto di interpretare quell’unicum che è rappresentato da Venezia.

Il progetto, promosso dalla Direzione regionale Musei Veneto – Museo di Palazzo Grimani in collaborazione con Suazes, ha debuttato lo scorso anno con la fortunata monografica su Inge Morath presentata con il titolo “Fotografare da Venezia in poi”, ammirata da oltre 30 mila persone.

“Questa mostra d’inserisce in una specifica progettualità che mira a far conoscere la produzione artistica di celebri maestri della fotografia e al contempo mostrare loro reportage dedicati alla città lagunare, esponendoli all’interno dei meravigliosi spazi di Palazzo Grimani”, anticipa il curatore Marco Minuz.

Nel caso di questa mostra dedicata a David Seymour saranno circa 200 i pezzi esposti tra fotografie, documenti, lettere e riviste d’epoca. Ad essere rappresentati nelle 150 immagini selezionate, collocate cronologicamente tra il 1936 e il 1956, saranno i più importanti reportage del fotografo polacco, come la Francia del 1936, la Guerra Civile spagnola, l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, il progetto del 1948 intitolato “Children of War”, commissionato dall’UNICEF e dedicato agli orfani di guerra, Israele ed Egitto negli anni Cinquanta del secolo. A questi si aggiungono le serie Ritratti e Personalità, nonché il già menzionato nucleo di foto realizzare a Venezia.  

A completare la descrizione del “mondo” di Chim, una cinquantina di documenti, tra cui una sezione con alcuni documenti dedicati alla Maleta Mexicana, la celebre valigia messicana piena di tesori fotografici che si credevano perduti per sempre (riferiti alla guerra civile spagnola) e invece ritrovati con commozione e sorpresa a Parigi nel 1995 ed ora di proprietà dell’ICP di New York.

David Szymin nacque nel 1911 a Varsavia da una famiglia di editori che realizzavano opere in yiddish ed ebraico. La sua famiglia si trasferì in Russia allo scoppio della prima guerra mondiale per tornare successivamente a Varsavia nel 1919.

Dopo aver studiato stampa a Lipsia, chimica e fisica alla Sorbona negli anni Trenta, Szymin decise di rimanere a Parigi. David Rappaport, un amico di famiglia proprietario della celebre agenzia fotografica Rap, gli prestò una macchina fotografica. Uno dei primi servizi di Szymin, dedicato ai lavoratori notturni, registrava l’influenzata del lavoro di Brassaï “Paris de Nuit” del 1932. Szymin – o “Chim” – iniziò in questo periodo a lavorare come fotografo freelance. Dal 1934 i suoi reportage apparvero regolarmente su riviste illustrate come Paris-Soir e Regards. Attraverso Maria Eisner e la nuova agenzia fotografica Alliance, Chim incontrò Henri Cartier Bresson e Robert Capa.

Dal 1936 al 1938 Chim testimoniò la guerra civile spagnola e, dopo la sua conclusione, si recò in Messico con un gruppo di emigrati repubblicani spagnoli. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferisce a New York dove adottò il nome di David Seymour. Entrambi i suoi genitori furono uccisi dai nazisti. Seymour prestò servizio nell’esercito degli Stati Uniti dal 1942 al 1945 ottenendo una medaglia al merito per il suo lavoro nell’intelligence.

Nel 1947, insieme a Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e William Vandivert, fondò a New York l’agenzia Magnum Photos. L’anno successivo venne incaricato dall’UNICEF di fotografare i bambini europei bisognosi.

Continuò a fotografare avvenimenti importanti in Europa, star di Hollywood in location  europee e la nascita dello Stato di Israele.

Dopo la morte di Robert Capa nel 1954 divenne presidente di Magnum. Mantenne questo incarico fino al 10 novembre 1956, quando, viaggiando nei pressi del Canale di Suez per fotografare uno scambio di prigionieri, fu ucciso dal fuoco di una mitragliatrice egiziana.


Museo di Palazzo Grimani
Ramo Grimani, Castello 4858  30122 Venezia Tel. 041.241.1507
 
Orari:
martedì-domenica dalle 10.00 alle 19.00; ultimo ingresso ore 18.00.
lunedì chiuso
 
Ufficio Stampa:
Studio ESSECI di Sergio Campagnolo
Tel. 049663499
www.studioesseci.net
Referente Simone Raddi: simone@studioesseci.net
 
Direzione regionale Musei Veneto
Tel. 0412967611
Museo di Palazzo Grimani
Tel. 0412411507
drm-ven.grimani@cultura.gov.it

Roma, Piazza Albina: OPENBOX4 MITO-MORFOSI di Lucrezia Testa Iannilli e Alberto Timossi

A cura di AdA-Cultura
Testo di Daniela Gallavotti Cavallero

Domenica 3 dicembre 2023 inaugura il progetto OPEN BOX4 MITO-MORFOSI, alle ore 11.00 a Piazza Albina e a seguire nei Giardini di Sant’Alessio, con le installazioni di Lucrezia Testa Iannilli Alberto Timossi, accompagnato da un testo di Daniela Gallavotti Cavallero, a cura di AdA-Cultura, Daniela Gallavotti Cavallero, Alessandro Olivieri e Mara van Wees.

Con OPENBOX4 MITO-MORFOSI, si giunge alla quarta edizione di un progetto espositivo, ideato da AdA Associazione Amici dell’Aventino ETS e promosso in co-organizzazione con il Municipio Roma I Centro, che persegue le finalità statutarie di AdA di custodia e valorizzazione dei luoghi del colle. Un progetto pilota incentrato sul dialogo tra la scultura contemporanea e i giardini dell’Aventino, che vuole dare la possibilità agli artisti di esporre le proprie opere in un contesto paesaggistico e storico unico.

L’evento di quest’anno porta l’attenzione sul mito e sulla trasformazione, la metamorfosi. 

“Per la sua natura appartata e selvatica, ai margini dell’acropoli su cui è sorta Roma, l’Aventino è da sempre luogo del Mito. A cominciare dal re Aventino, figlio di Ercole e di una sacerdotessa di nome Rhea, il “bell’Aventino con il capo coperto da una pelle di leone”, come lo ricorda Virgilio nell’Eneide, ucciso e sepolto sul colle a cui avrebbe poi dato il nome. L’altura fu poi scelta da Remo per avvistare in cielo gli uccelli, da cui avrebbe voluto trarre gli auspici per la fondazione della sua Roma, e che furono invece l’inizio di un dissidio concluso nel fratricidio. La più terribile delle figure mitiche legate all’Aventino è Caco, che Dante ricorda nella Divina Commedia come un centauro. Era figlio di Vulcano e viveva nelle caverne che erodono la ripida scarpata del colle verso il Tevere: “Questi è Caco, che sotto il sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco”. Caco uccideva i pastori e faceva sparire con l’inganno i loro armenti, tirandoli nelle sue caverne per la coda, così che le loro orme sembrassero andare in direzione opposta.  Quando rubò il bestiame di Ercole l’eroe lo uccise. Con poche eccezioni, il mito affonda le sue radici nel sangue, nella sopraffazione, nella doppiezza dell’agire. Le storie leggendarie ambientate all’Aventino non fanno eccezione.  

I sentimenti forti, la violenza di quei modelli che sono anche alla base delle Metamorfosi di Ovidio sono del tutto estranei alla trascrizione moderna delle iconografie antiche che propone Lucrezia Testa Iannilli. I suoi centauri che appaiono tra gli alberi di piazza Albina, a volte nella sintesi uomo-cavallo, altre scorporando la forma umana e quella equina, inducono alla calma contemplazione senza tempo dell’età dell’oro. Nelle immagini esposte nel giardino di Sant’Alessio sembra di percepire il proposito ovidiano nel primo verso del suo poema, la rappresentazione del “mutamento di corpi in altri nuovi”: il levriero che pensa con il muso appoggiato alla “sua” mano e quello con arti umani, la ragazza con l’occhio di civetta, a mostrare come le anatomie possano accostarsi e fondersi senza cesure in una sorta di possibile riallestimento del repertorio naturale.

Anche gli interventi di Alberto Timossi nei due giardini dell’Aventino possono essere letti come un caso di trasformazione, non figurata e perciò meno scoperta. I suoi materiali vengono dal repertorio dell’edilizia moderna, sono grandi tubi rossi piegati o spezzati, che diventano pezzi anatomici, come gigantesche vene affioranti, e possono mettere in evidenza un interno scabro, irregolare, di grandi carotidi. In questo caso la metamorfosi è quella che subisce l’ambiente, che trapela ancora all’Aventino in piccoli  spazi nella sua primigenia forma agreste, a piazza Albina e nel giardino di Sant’Alessio, tutt’intorno lacerato dagli interventi dell’antropizzazione, violenti fino a esporre l’interno fuor di pelle.”
Testo di Daniela Gallavotti Cavallero


Per la sua natura appartata e selvatica, ai margini dell’acropoli su cui è sorta Roma, l’Aventino è da sempre luogo del Mito. A cominciare dal re Aventino, figlio di Ercole e di una sacerdotessa di nome Rhea, il “bell’Aventino con il capo coperto da una pelle di leone”, come lo ricorda Virgilio nell’Eneide, ucciso e sepolto sul colle a cui avrebbe poi dato il nome. L’altura fu poi scelta da Remo per avvistare in cielo gli uccelli, da cui avrebbe voluto trarre gli auspici per la fondazione della sua Roma, e che furono invece l’inizio di un dissidio concluso nel fratricidio. 

La più terribile delle figure mitiche legate all’Aventino è Caco, che Dante ricorda nella Divina Commedia come un centauro. Era figlio di Vulcano e viveva nelle caverne che erodono la ripida scarpata del colle verso il Tevere: “Questi è Caco, che sotto il sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco”. Caco uccideva i pastori e faceva sparire con l’inganno i loro armenti, tirandoli nelle sue caverne per la coda, così che le loro orme sembrassero andare in direzione opposta.  Quando rubò il bestiame di Ercole l’eroe lo uccise. 

Con poche eccezioni, il mito affonda le sue radici nel sangue, nella sopraffazione, nella doppiezza dell’agire. Le storie leggendarie ambientate all’Aventino non fanno eccezione. 

I sentimenti forti, la violenza di quei modelli che sono anche alla base delle Metamorfosi di Ovidio sono del tutto estranei alla trascrizione moderna delle iconografie antiche che propone Lucrezia Testa Iannilli. I  suoi centauri che appaiono tra gli  alberi di piazza Albina, a volte nella sintesi uomo-cavallo, altre scorporando la forma umana e quella equina, inducono alla calma contemplazione senza tempo dell’età dell’oro. Nelle immagini esposte nel giardino di Sant’Alessio sembra di percepire il proposito ovidiano nel primo verso del suo poema, la rappresentazione del “mutamento di corpi in altri nuovi”: il levriero che pensa con il muso appoggiato alla “sua” mano e quello con arti umani, la ragazza con l’occhio di civetta, a mostrare come le anatomie possano accostarsi e fondersi senza cesure in una sorta di possibile riallestimento del repertorio naturale.

Anche gli interventi di Alberto Timossi nei due giardini dell’Aventino possono essere letti come un caso di trasformazione, non figurata e perciò meno scoperta. I suoi materiali vengono dal repertorio dell’edilizia moderna, sono grandi tubi rossi piegati o spezzati, che diventano pezzi anatomici, come gigantesche vene affioranti, e possono mettere in evidenza un interno scabro, irregolare, di grandi carotidi. In questo caso la metamorfosi è quella che subisce l’ambiente, che trapela ancora all’Aventino in piccoli  spazi nella sua primigenia forma agreste, a piazza Albina e nel giardino di Sant’Alessio, tutt’intorno lacerato dagli interventi dell’antropizzazione, violenti fino a esporre l’interno fuor di pelle.


INFO

OPENBOX4 MITO-MORFOSI
Opere di Lucrezia Testa Iannilli e Alberto Timossi
Promosso da: Associazione Amici dell’Aventino ETS, Municipio Roma I Centro

A cura di AdA-Cultura, Daniela Gallavotti Cavallero / Alessandro Olivieri / Mara van Wees.
Testo di Daniela Gallavotti Cavallero

Inaugurazione 3 dicembre 2023
ore 11.00 Piazza Albina
a seguire Giardini di Sant’Alessio
Degustazione a cura di Casale del Giglio

Fino al 9 febbraio 2024 – Ingresso libero

Orari:
Giardini di Sant’Alessio: ore 9 / tramonto
Piazza Albina: aperto 24/7

AdA Associazione Amici dell’Aventino ETS
info@aventino.org

Ufficio stampa
Roberta Melasecca –
Melasecca PressOffice – Interno 14 next – blowart