La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.
In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.
Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.
Parte prima: Il mare
La giacchetta di cuoio
Mio padre mi lascia passare le giornate alla baracca dell’imbarco, perché così mi divago e imparo un mestiere senz’accorgermene. Adesso c’è una padrona grassa, che grida sempre, e se faccio tanto di toccare una barca, mi vede, fosse anche dalla cantina, e grida che non è roba mia. Dietro la baracca ci sono i tavolini e le sedie per i clienti, ma questa padrona non si fa piú aiutare, e se le porto un’ordinazione dice subito a suo figlio di prendere lui i bicchieri. Nella baracca è un pezzo che non entro più, e più ancora che non salgo di sopra a guardare l’acqua e le barche dalla finestra di Ceresa. Qui non viene più nessuno ormai, e sta fresco mio padre se crede che possa ancora imparare il mestiere.
Questa madama Pina non sa mica fare: trattano i clienti come trattano me. Non basta portare la giacchetta di cuoio per governare un imbarco; bisogna che la gente venga di voglia e veda dalla faccia del padrone che gli piacciono le barche e il Po e che divertirsi è una bella cosa. Ceresa sí che era l’uomo: sembrava che giocasse con tutti e sulle barche ci stava piú lui che i clienti. Quando c’era Ceresa non mancava mai da ridere: si stava in mutandine nell’acqua, si preparava il catrame, si vuotavano le barche, e alla stagione buona si faceva merenda col secchio dell’uva sul tavolo, sotto le piante. Le ragazze che andavano in barca si fermavano a scherzare sotto la tettoia, e ce n’era una che voleva farsi accompagnare da Ceresa su per il Po. Ceresa le diceva sempre che non poteva piantare l’imbarco e l’osteria, e che venisse la mattina presto prima del sole. Una bella mattina quella stupida era venuta, e Ceresa allora le disse che si alzasse cosí tutti i giorni e le sarebbe passato il mal di testa.
La giacchetta di cuoio, che adesso la vecchia si butta sulle spalle quando piove, Ceresa la portava sempre e mi ricordo che, una volta che eravamo in barca e venne un temporale, se la tolse e me la diede per coprirmi. Sotto, era sempre a torso nudo, e mi diceva che, se avessi fatto la vita del Po, da grande mi sarebbero venuti i suoi muscoli. Aveva i baffetti e a forza di stare al sole era biondo.
L’altr’anno, per via di Nora, qualcuno smise di venire. Nora prima era la serva che portava le bibite ai clienti e la sera se ne andava via; poi l’altr’anno, per tardi che me ne andassi a casa, lei restava ancora nella baracca, e la mattina quando arrivavo la vedevo già guardare dalla finestra. Nora era una bella donna; Ceresa non lo diceva mai, ma lo dicevano i giovanotti e i vecchi che giocavano alle bocce. Nora stava appoggiata alla porta, tenendosi un gomito con la mano, vestita di rosso, e guardava tutti senza parlare. A me, una volta che mi sedetti sullo scalino aspettando Ceresa, mi disse: — Stupido, va’ a casa tua —. Ma delle altre volte rideva quando mi sedevo in una barca coi piedi nell’acqua, e se qualcuno chiedeva un remo o un cuscino e non c’era Ceresa, mi diceva di andarli a prendere sotto la tettoia.
A me fece subito pena che Nora non se ne andasse piú dalla baracca. Prima, quando me la ricordavo, dicevo anch’io: «È una bella ragazza» e non ci pensavo piú; ma, se adesso teneva compagnia a Ceresa, voleva dire ch’era proprio qualcosa di straordinario, e mi faceva pena perché non capivo che cosa.
Mangiavano sotto la tettoia, insieme; e io restavo ancora un poco, per aiutarli se tornavano barche, ché non dovessero alzarsi; e loro discorrevano, a me dicevano qualcosa ogni tanto, ma piú che tutto si strizzavano l’occhio e, se Nora andava in cucina a prendere un piatto, Ceresa stava zitto, guardando la porta. Tra loro parlavano come non parlavano con me; neanche Ceresa, che con tutti scherzava, con lei era il solito, ma diceva delle cose adagio, battendo la punta delle dita sul tavolo e guardando in su, oppure menava la cerniera-lampo della giacchetta come fosse un ventaglio, e Nora strizzava tutti e due gli occhi e guardava la cerniera ridendo.
Si capiva che stavano insieme per compagnia ma non per sposarsi, perché Nora non portava mai un vestito qualunque di quelli che si mettono in casa, ma aveva quello rosso, e un altro bianco ancora piú bello, e una volta lavati i piatti e scopato, restava sulla porta o veniva a guardare l’acqua come fanno le ragazze che prendono la barca. Quando Ceresa la cercava, lei veniva camminando adagio e sembrava sempre che non avesse niente da fare. Invece la giornata era lunga e ci stavano tante cose: lei serviva nell’osteria, lavava le camicie e le avanzava ancora il tempo per fumare la sigaretta.
Adesso che Nora era la padrona, Ceresa mi diceva che un giorno avremmo ripreso la barca io e lui e saremmo stati via fino alla sera risalendo il Po oltre la diga. Nora in barca con noi non ci veniva, diceva che l’acqua puzzava, e quando partivamo con le reti e la cesta per pescare sotto il ponte, ci guardava dalla finestra ridendo. Per pescare, Ceresa si metteva soltanto la giacchetta e le mutandine nere strette strette, e saltavamo in acqua e piazzavamo la cesta contro le pietre e, mentre io tenevo la barca, Ceresa disturbava i pesci con le mani. Oltre la diga sapeva un lago straordinario che si tornava con la cesta piena, e diceva sempre che saremmo partiti un bel mattino per tornare la sera. Per molte mattine arrivai all’imbarco sperando che fosse la volta buona, ma capitava sempre qualcosa da fare, oppure Ceresa aveva da finire un discorso con Nora, o da catramare una barca avanzata la sera prima, e si rimandava.
Finii per andarci da solo, oltre la diga. Un giorno che Ceresa aveva da fare a Torino, io restai solo con Nora che puliva della verdura in un secchio sotto la tettoia. Nora mi teneva d’occhio senza parlare e allora mi annoiai. Le dissi che prendevo la barca e partii. Restai fino a mezzogiorno sull’acqua e tornai convinto che quel giorno non avrei visto Ceresa e che facevo meglio ad andarmene a casa. Invece Ceresa era tornato e rideva dalla finestra infilandosi la giacca e mi chiamò di sopra. Feci un passo ma poi vidi Nora sulla porta, che mi guardava di traverso, e non ebbi il coraggio di entrare per salire. Dissi: — Ceresa chiama, — e andai sotto la tettoia a posare il remo. Nora mi guardò mi guardò, poi salí lei.
Le mattinate erano l’ora piú bella, perché si poteva sempre sperare di piú che non alla sera. Alla sera dovevo andarmene perché dopo cena Ceresa e Nora si vestivano e si prendevano a braccetto: andavano a Torino, al cine, a spasso. L’imbarco restava vuoto, chiudevano l’osteria appena buio. Prima c’era sempre qualcuno e Ceresa ci faceva divertire: lui non aveva freddo, restava in mutandine anche al buio. Mi faceva rabbia che Nora, che non prendeva mai sole e doveva essere bianca come la pancia di un pesce, gli desse del tu e stessero sempre a braccetto. Avrei pagato per saper fare i loro discorsi.
— Vedrai quando mi sposo, – mi disse un mattino Ceresa, – sarà tutto come prima —. Io gli tenevo il catrame e avevo voglia di piangere. Non piangevo e guardavo la barca, perché non ridesse. Stavo attento che Nora dalla cucina non mi sentisse, eppure sapevo benissimo che voleva sposarla davvero.
— Io non mi sposerei, – dissi piano, – vedrai che, quando ti sposi, Nora non si mette piú il vestito rosso e cominciate a litigare.
— Cos’è che hai detto con lo Zucca ieri mentre giocava alle bocce?
Ceresa sapeva sempre tutto. Ma era lo Zucca, quello dal gozzo, che parlando con un altro aveva detto che Nora era una mula e Ceresa non doveva sposarla. Io avevo soltanto ascoltato portando i bicchieri.
— Tu sei un ragazzo, – disse Ceresa, – non fare i discorsi dei grandi. Se Nora ti dice qualcosa, dillo a me.
Ma Nora non mi diceva mai niente d’importante. Certe volte mi cacciava via. Quando lavoravamo con Ceresa intorno a una barca, lei dalla porta ci guardava con una faccia da padrona, e non capivo se guardava cosí me o Ceresa. Adesso aspettavo soltanto che tornasse il discorso, per dirgli che Nora era una donna cattiva.
Qualche giorno dopo il fatto dello Zucca, aspettavo in barca che Ceresa scendesse, ma Ceresa non veniva. Era salito un momento a prendere da fumare, e dall’acqua vedevo la finestra aperta, ma siccome era bel sereno potevano venire clienti a portarmi via Ceresa, e non vedevo l’ora che scendesse. Era un pomeriggio caldo, e non si sentiva neanche il rumore dell’acqua contro le barche. Poi intravedo la schiena di Ceresa alla finestra e sento che parla verso la stanza e non si volta a dirmi niente. Allora guardo il sole, poi chiudo gli occhi e me li premo, e vedevo tante macchie rosse e verdi e mi annoiavo. Aspettai non so quanto, e un bel momento vedo Ceresa sotto la tettoia che accendeva la sigaretta e mi chiedeva che facevamo. Gli mostrai il remo e Ceresa fece un gesto come a dire che gli seccava, ma saltò nella barca. Si lasciò portare da me fino al ponte e stava seduto senza parlare. Poi saltò in acqua e pescammo, e ogni tanto diceva qualcosa dei pesci, ma non smetteva di fumare e di drizzarsi a guardare l’acqua. Io gli parlai del motoscafo e discutemmo se andava a benzina, ma lui non mi prese piú in giro come faceva di solito, e sbatteva i pesci piccoli in fondo alla barca dicendo: — Crepate anche voi. Quella sera passò lo Zucca col barcone e disse: «Ehilà». — Tu sí che sei furbo, — dico io vuotando l’acqua sui pesci, e Ceresa lo guarda, poi mi guarda ridendo e mi pianta la mano sulla testa e mi fa il massaggio.
Eppure con Nora non aveva litigato. Alle donne piace fare del baccano o almeno piangere; le donne sono diverse da noi. Ma con Nora si stava zitti; scommetto che anche a lui Nora diceva delle volte come a me: «Come sei stupido. Va’ via», e allora Ceresa non poteva far altro che torcerle il polso e romperglielo. Una volta sola che in presenza di due clienti le disse di cucire il cuscino rotto di una barca, Nora prese il cuscino e lo tirò nell’acqua. Poi si chiuse di sopra e non voleva piú aprirgli. Io mi misi a servire ai tavolini dietro la baracca, dove non si erano accorti di niente. Ceresa non mi parlò per tutto il giorno e stette sotto la tettoia a limare uno scalmo e si pompava da solo la forgia e prendeva i carboni e li buttava con le mani nel Po ancora stridenti.
L’indomani trovo l’uscio di legno. Chiamo; non c’è nessuno. Allora me ne vado perché non volevo che mi trovassero i clienti e dovergli dire che Ceresa aveva litigato. L’imbarco fu morto per due giornate; poi un bel mattino giravo per caso sulla riva e vedo del movimento tra le barche. Era tornato Ceresa; era tornata Nora, che se ne stava alla finestra e si cambiava la camicetta. Ceresa imbarcava allora due ragazze, di quelle che si spogliano sotto la tettoia, e gridavano delle stupidaggini. Ceresa rideva e teneva la barca.
La sera ci fu la festa perché Nora era tornata. Vennero in cinque o sei, barcaioli e clienti – lo Zucca, Damiano, i soliti – ma parevano piú allegri e fecero mezzanotte discorrendo e scherzando. Dicevano tutti che Nora doveva fare il bagno e dicevano che l’indomani avrebbe comperato il costume e avrebbe servito in maglietta i giocatori di bocce. Poi venne fuori la luna, e il battuto era chiaro come a mezzogiorno; allora Damiano portò il vino e si misero a giocare. Io cascavo dal sonno ma non volevo andarmene; ci pensò Nora che mi disse: — A casa tua non ti vogliono? — e allora tornai.
Da quel giorno Nora divenne piú allegra ma con Ceresa era sempre pronta a rispondere, e Ceresa ci rideva sopra e alzava le spalle. Alle volte mi vergognavo io per lui quando quella strega diceva delle sciocchezze in presenza degli altri. S’era comperato il costume da bagno, un costume rosso come quel vestito, e lo metteva a mezzogiorno per prendere il sole mentre andava e veniva davanti alla tettoia, e lo teneva anche dopo, finché Ceresa non la prendeva per un braccio e la guardava con due occhiacci. Nora aveva una pelle che sembrava burro bianco, ma nel Po non faceva mai il bagno. Quando venivano Damiano o il figlio dello Zucca o dei soldati, si fermava a ridere con loro e farsi vedere. Io non capisco che cosa ci trova la gente nelle donne. — Vedrai, – mi disse una volta Ceresa, – che piaceranno anche a te.
Ma finora non mi è ancora capitato.
Poi Ceresa litigò con Damiano. Litigò un giorno che io non c’ero, e ne sentii parlare all’osteria il giorno dopo. Si erano presi a pugni e avevano gridato tanto che i tranvieri dell’altra riva sentivano. Quella volta guardai di nascosto la faccia di Nora, se fosse arrabbiata anche lei; ma piú che arrabbiata mi pareva spaventata. Invece Ceresa non disse niente e venne con me a pescare e quel giorno non c’era un pesce a pagarlo, e lui dalla rabbia prese la cesta e la sbatté contro la pila. Poi si distese in fondo alla barca e mi disse di portarlo a casa.
Ormai, se non mi diceva lui che c’era da fare qualcosa, io ci venivo malvolentieri all’imbarco. C’era delle giornate che stavamo sotto la tettoia senza parlare e Nora non si vedeva. Ma era ancor peggio quando Nora circolava in cucina o serviva i clienti, perché allora mi aspettavo sempre che dicesse qualcosa. Poi una volta cerco la mia barchetta – quella che mi ero fatto io sul banco della tettoia quando Ceresa mi lasciava lavorare – e non la trovo piú. Ceresa era seduto per terra contro il palo e gli chiedo dov’era la barchetta; lui mi dice che non sa. Allora corro in cucina e lo chiedo a Nora e la sento dire tranquilla che l’ha bruciata nel fuoco.
Ceresa mi chiese quel giorno, perché non imparavo un mestiere. — Ma voglio fare il barcaiolo, — rispondo. — Sei matto, – dice lui, – non vedi che mestiere dannato? Di’ a tuo padre che ti metta in fabbrica, diglielo. Piuttosto devi fare il soldato —. Mi fece pena, non per me che tanto ero niente, ma per lui che non gli piaceva piú il Po. Volevo dirgli che sposasse Nora, cosí l’avrebbe comandata meglio, ma non sapevo se mi avrebbe risposto. Mi rimisi i calzoni e tornai a casa.
Nora si era accorta di avermela fatta grossa, perché l’indomani mi chiamò in cucina e mi fece discorrere. Mi chiese se mi piaceva tanto fare il barcaiolo e se non avevo paura di annegare. Io le risposi che mi piaceva perché era il mestiere di Ceresa. Poi mi chiese se ero capace di portarla in barca. — Domandiamo a Ceresa se ci lascia andare a vedere la diga. Se domani fa bello, andiamo.
L’indomani si mise in costume e si fece imprestare la giacchetta di Ceresa. Prendemmo il cestino della merenda e lei si sedette sui cuscini; Ceresa ci guardò partire ridendo. Una volta passato il ponte, mi misi a remare lungo, e Nora mi chiese se era lontano. Le spiegai come si faceva a puntare il remo, e lei provò: mi venne vicino e per poco non cadevamo nell’acqua; le donne sono tutte uguali. Tornò a sedersi e mi chiese se sapevo nuotare nell’acqua alta. Sapeva che sotto la diga non si può nuotare e mi disse di fermarci allo sbocco del Sangone dove c’era l’acqua tranquilla.
Legai la barca a terra e, mentre lei mi guardava, feci un bel tuffo. Poi nuotai nel Sangone e le gridai che l’acqua era piú fredda che nel Po. Quando arrivai sotto la barca e cominciavo a toccare, vidi uscire sulla riva Damiano e un soldato. Erano amici, ma il soldato non l’avevo mai visto. Allora vennero vicino alla barca e cominciarono a discorrere con Nora. Io salutai Damiano, ma senza dargli confidenza. Salii da me sulla barca e mi sedetti.
Mi faceva rabbia Damiano, perché sapevo che remava meglio di me e, se Nora gli diceva di portarci alla diga, facevo la parte dello stupido. Ma Damiano e il soldato si sedettero sulla riva e cominciarono a scherzare. Non rispondeva, e dopo un po’ saltò anche lei a terra e disse che voleva passeggiare. Il soldato le mise la mano sulla cerniera della giacchetta e disse ridendo: — Ci vuol aria —. Era un napoletano.
Rimasi solo nella barca e pensavo che, se Ceresa lo avesse saputo, guai al mondo, e allora tornai nell’acqua perché chi passava non capisse che la barca era di Ceresa. Nora tornò ch’era già sera e mi disse che non dovevamo dire a Ceresa di aver visto Damiano. Questo lo sapevo anch’io.
Ma l’indomani cercò di nuovo di farsi portare – stavolta ai Mulini –, e mi toccò di non venire all’imbarco, perché tra Ceresa che insisteva e lei che mi guardava come fanno le donne quando sono arrabbiate, non potevo dir di no. Ci venni verso sera e la trovai che s’era già messa la gonna, ma, invece della camicetta, aveva ancora la giacca di cuoio. Si vede che adesso teneva il costume sotto la gonna. Mi guardò brutto, ma io stetti con Ceresa.
Erano belle le mattine di settembre, quando il Po faceva nebbia e aspettavamo che il sole poco alla volta la rompesse. Adesso c’era sempre qualcosa da fare alla forgia o nel catrame, e Nora non si vedeva tanto presto perché andava al mercato. Ceresa parlava meno di una volta ma gli stavo volentieri insieme perché capivo che era svogliato e mi lasciava pasticciare sotto la tettoia come volevo. Ogni tanto diceva qualcosa, e gli tenevo compagnia così.
Venne finalmente la stagione dell’uva, e un pomeriggio ne staccammo dalle viti che coprivano l’osteria e facemmo merenda col secchio. C’era anche Nora e mangiavamo ridendo, tutti e tre. Nora diceva che bisognava stare attenti perché di notte ce la rubavano. Poi per farci vedere dove i ladri potevano nasconderla, si aprì la cerniera-lampo della giacchetta. Intravidi che sotto c’era nudo, qualcosa di bianco e chiazzato; non aveva il costume. Chiuse subito.
Mentre noi facevamo merenda, c’erano due soldati che bevevano la birra a un tavolino, e uno mi pareva proprio quell’amico di Damiano che aveva scherzato con Nora. Ma come si fa a dire? si somigliano tutti. Nora portandogli la birra non s’era fermata.
Ma dopo un’ora li rividi tali e quali, che ridevano e discorrevano con Nora. Ceresa era entrato in casa. Vidi Nora chinarsi sul tavolino, e il soldato allungare la mano come quel giorno, ma stavolta tirar giú la cerniera, e Nora chinata rideva anche lei. Mi voltai soltanto quando sentii che Ceresa era sulla porta. Mi chiamò e non disse niente.
Un momento dopo io ero solo sul battuto delle bocce, i tavolini erano vuoti, e Nora e Ceresa erano in casa. Stetti a sentire se gridavano ma niente si muoveva. Avevo soltanto paura che arrivasse un cliente o tornasse una barca e dover chiamare Ceresa. Tra le piante era sereno e veniva sera; avevo freddo. Di là dalle piante sentivo gli uccelli che volavano basso. Sulla scarpata non passava neanche un’automobile. Parevano tutti morti.
Mi prese vergogna, paura, non so. Pensavo ancora a quel bianco di Nora. Mi pareva che tutto gridasse e di sentirmi chiamare. Poi s’aprí la finestra e Ceresa si sporse e disse: — Pino, fila a casa —. Chiuse subito.
L’indomani ci tornai col cuore in gola. Passai sulla scarpata senza scendere; l’imbarco era tranquillo in mezzo alle piante. Non c’era nessuno. Tanto dovevo fare una commissione al Dazio. Ma dopo pranzo mi decisi: Ceresa doveva saperlo che non ci avevo colpa. Vedo un mucchio di barche che andavano e venivano davanti all’imbarco; vedo due in borghese fermi vicino a un’automobile all’imbocco del sentiero. Capisco che non si può passare, e allora faccio il giro del prato. Sotto la tettoia tutti vanno e vengono, ma Ceresa non c’è. Allora trovo il figlio dello Zucca che mi dice che Ceresa ha strozzato Nora e l’ha buttata nel Po.
Io volevo vederlo per dirgli di quel giorno del Sangone, ma ci fecero sgombrare quanti eravamo e quando lui uscì si sentì soltanto il rumore dell’automobile. Poi mio padre mi disse che meno ne parlavo meglio era, per me e per tutti.
Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.