Anna Giraldo – Blu Natale

“Non è facile, Eli. Essere straniero in ogni terra e cercare ciò che non esiste… Cosa non esiste, papà? L’onda perfetta, Eli. L’onda perfetta non esiste, credimi. Se esistesse io l’avrei trovata, ma non c’è. Eppure non so fare altro che cercarla, considerò guardando un punto lontano all’orizzonte, tra i tetti delle case, un punto di mare confuso nella foschia, troppo lontano per essere raggiunto”. ‘Blu Natale’ è un racconto breve, spin off del romanzo ‘Meet you on the other side’.

SCARICA IL LIBRO FORMATO E-BOOK GRATIS DA IBS

IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Pierre-Auguste Muysson – L’uomo che una volta sconfisse la Morte

di Pierre-Auguste Muysson

Al freddo pungente della neve, che da qualche ora aveva ricoperto il paese, si aggiungeva l’umido della cripta, rischiarata da una lama di luce che dal lampione filtrava attraverso un’asola sotto la crociera. Lo sguardo perso di Georges incrociò quello del vescovo, che sembrava fissarlo serafico. Se ne stava supino, con il capo reclinato su di una mano e i panneggi della veste perfettamente ordinati. Troppo ordinati, innaturali. Il suo viso tondo, lunare, messo ancor più in evidenza dalla tiara, appariva quasi sorridente. A secondo dello stato d’animo – quando, sin da ragazzino, veniva a fargli visita – quel viso assumeva un paterno sguardo di esortazione o di dubbio o di rimprovero. Questa sera era inspiegabilmente sereno, nonostante lui fosse venuto a manifestargli lo stato d’infermità di sua madre, che lasciava presagire per lei una notte troppo lunga da non farle rivedere la luce del mattino. Cercava parole di conforto, ammesso che il vescovo avesse potuto parlare, ma questa sera, così gelida, gli appariva più marmoreo che mai.

Ogni volta che ne sentiva il bisogno veniva a passarci qualche ora, con quel vescovo di pietra. Scavalcava i tetti delle case abbarbicate alla matrice, si calava lungo un pluviale, sempre più instabile, raggiungeva l’apertura di una finestra dai fregi barocchi e s’immetteva nella cripta. Senza che il parroco se ne accorgesse; perché l’abate Olivier si opponeva tenacemente all’accesso di estranei e attendeva con ansia un restauro che non si realizzava mai e che avrebbe, di fatto, valorizzato il monumento più pregevole della chiesa. Con l’occasione avrebbe fatto collocare una grata per impedire intrusioni.

Ma questa sera, ancora una volta, Georges era lì. Da sempre, o almeno da quando se ne ricordava – e un suo ricordo d’infanzia coincideva con la scomparsa del padre – si era dovuto comportare con la stessa saggezza di un vecchio. Studiare e lavorare. Coltivare la ricchezza dello spirito e badare, nonostante le avversità, all’orto di famiglia che permetteva il sostentamento suo e di sua madre. E ora anche lei sarebbe andata via, come uno dopo l’altro vanno via gli anziani, percorrendo la strada che divide in due l’abitato. Verso nord, per raggiungere il Campo Santo. Verso sud, invece, vanno via i giovani del paese, in direzione della città. Per studiare, per lavorare, per prendere il treno e andare ancora più lontano a cercare chissà quale fortuna.

A leggere un libro che aveva trovato in un cassone sembra che nei primi anni del secolo – inizio Novecento per intenderci – il paese contasse oltre diecimila anime, forse anche di più. Ora a transitare per certe sue strade ci si poteva chiedere se le case fossero mai state abitate. Il libro lo aveva scritto il parroco; quello che c’era prima dell’abate Olivier, prima cioè che se ne andasse pure lui, verso nord. Il vescovo di pietra, invece, era rimasto nella chiesa, perché era qui che si raccoglievano le spoglie mortali dei personaggi illustri. C’era anche il barone, ma la sua tomba faceva bella mostra lungo la navata laterale, perché nella cripta c’era solo il vescovo. Che fosse davvero un vescovo, a memoria, non avrebbe potuto confermarlo; ma cosa importava il suo lignaggio, se ugualmente poteva parlargli e in virtù del suo sguardo, ottenere una risposta? Ma che risposta era mai quell’ammiccare di sottecchi che aveva assunto questa sera.

Come anelli di fumo, le immagini di una vita si intrecciavano nella sua mente. Avevano tutte un denominatore comune: prodigare ogni sforzo nel tentativo di dare a sua madre una vita migliore di quella che la malattia le aveva riservato. Georges avrebbe potuto enumerare i giorni trascorsi accanto al suo letto o le notti sveglio a contare le ore prima del levare del sole. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Avrebbe usato le sue parole migliori e l’avrebbe convinta a fermare il tempo.

Quando mise la testa fuori dalla cripta, il cielo s’era liberato delle nubi ed era scesa la sera. Il paese, illuminato a singhiozzo, gli sembrò di cartone, come quello di un presepe. Fu solo allora che rammentò che era la vigilia di Natale; ma non c’erano pastori nelle strade, né comete nel cielo. 

Si arrampicò di nuovo sul pluviale, passò da un tetto all’altro, si calò nella strada che costeggia l’abside della chiesa, rischiarata dalla luce pallida della luna. Neppure due passi e si sentì chiamare. Era l’abate Olivier, nella penombra, che si apprestava alla canonica con andatura spedita. Cercò di defilarsi, per timore di un rimprovero. Ma si sentì chiamare ancora. Allora Georges si voltò. Il parroco teneva in mano un pacco e glielo porgeva. Nell’avviarsi a casa, lo pregò di fermarsi a palazzo e di consegnarlo al barone, tanto più che aveva chiesto di lui e manifestato l’urgenza di parlargli. Dal canto suo l’abate Olivier espresse, con spiccia cortesia, la sua premura per via dei preparativi necessari alla celebrazione della messa grande di mezzanotte. Sarà stato per la luce fioca o per quel movimento rigido della veste, che si scorgeva sotto il cappotto pesante, ma il volto del parroco gli parve tondo e lunare. Per la prima volta, Georges ravvisò una somiglianza con la statua del vescovo.

Quando fu nello studio del barone – o meglio del nipote del barone, o meglio ancora del signor sindaco – Georges in cuor suo cominciò a scalpitare per il tempo ch’era trascorso da quando aveva lasciato la stanza di sua madre. L’uomo mostrava un portamento lento e altero. Si accostò alla scrivania, cercò il tagliacarte tra i fascicoli che ricoprivano il piano di lavoro e con fare puntiglioso aprì attentamente il pacchetto. Quel che ne cavò fuori sembrò, nel barlume della lampada da tavolo, un antico stendardo; anzi, era proprio l’antico stendardo della confraternita dei Nobili, che il sindaco, cioè il barone, aveva voluto fosse inviato ad abili ricamatrici perché ne riparassero le scuciture. Nel corso della celebrazione della messa di quella mezzanotte sarebbe tornato a figurare fra gli stendardi della confraternita dell’Arte e Mestieri e quella della Misericordia. Il nobile fu colto da un moto di orgoglio e la sua espressione si fece trionfante, perché credeva convintamene che occorresse rinsaldare, nel paese desolato, un’identità estenuata.

Intento ad ammirare i preziosi ricami dorati, s’era però dimenticato del ragazzo, quasi che ogni cosa del mondo girasse intorno allo stendardo. Ricordando che lui stesso lo aveva mandato a chiamare, frugò fra le carte ed aprì una busta. Le cattive notizie non vengono mai sole, pensò ansioso Georges. Il sindaco sottolineò, con aria sussiegosa, che stava parlando in qualità di pubblico amministratore. Si complimentò con il giovane e gli confermò il finanziamento del Circolo da lui presieduto a sostegno dell’iniziativa che aveva intenzione di assumere. Per annunciargli la notizia non aveva voluto attendere di riceverlo nella sede comunale, ma incontrarlo subito, giacché – disse – i giovani capaci e volenterosi come lui rappresentavano la speranza del paese.

Il più bel regalo di Natale che Georges avesse potuto sperare. In altri momenti. Ci aveva confidato, lavorato, fantasticato. Era lo strumento per realizzare il futuro vagheggiato, per superare la stretta dipendenza dalle quotidiane contingenze. Aveva scommesso con sé stesso, e con i suoi scettici compaesani, che avrebbe potuto utilizzare il suo diploma di agrario a beneficio di tutti. Aveva l’avvenire nelle mani. Mentre a passi svelti percorreva la via del ritorno, le botteghe che si affacciavano sulla strada ripresero via via a popolarsi, nella sua fantasia: il salone da barbiere, il negozio di generi alimentari e la dolceria all’angolo del Collegio di Maria. Il paese questa sera assomigliava davvero a un presepe, in cui entravano a far parte, tra le figurine di terracotta, l’asino con le bertole stracolme e persino la sfasciata berlina di cui monsieur Victor andava ancora fiero. Questo pensava Georges, risalendo gli sconnessi gradini che lo separavano da casa. In altri momenti sarebbe stato felice, ma le condizioni di salute di sua madre gli davano il tormento.

La casa di un morente ha un silenzio tutto suo. Sembrò persino che il rumore del portone su strada, nel richiudersi, rintronasse oltremisura. Georges entrò in camera e, appena lo scorse, sua cugina Mathilde gli lasciò il posto a sedere accanto al capezzale ed uscì. L’ammalata stava adagiata su due ampi cuscini bianchi appoggiati alla spalliera del letto di metallo. Il respiro rantolante, lo sguardo assente. Di tanto in tanto prendeva a scuotere la coperta e delirava di aiutarla a liberarsi da nugoli di formiche che la stavano assalendo. Poi tornava tranquilla e ancora assente. Chi veglia un infermo rimane immobile come l’infermo stesso. Così Georges. Unico movimento era quel suo sguardo che lo portava ad osservare particolari mai degnati d’attenzione: il punto con cui era tessuta la coperta, il merletto del lenzuolo sgualcito, i gigli di madreperla che ornavano la testiera del letto in metallo brunito. Si alzò di scatto per richiudere le persiane di castagno che avevano preso all’improvviso a battere per il vento, e si sorprese a riflettersi nello specchio dell’armoire alle spalle. Fu in quell’attimo che Georges si accorse di non essere solo con sua madre nella stanza.

Accanto alla testiera del letto – non ebbe dubbi – eretta e silente era la Morte. Quando la si vede accanto alla testiera, dicevano le storie di paese, era segno evidente che fosse l’ultima ora. Fissava la donna come se ne gestisse il respiro agonizzante. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Non era questo che aveva desiderato nella cripta del vescovo? Non avrebbe voluto esprimerle i sentimenti più intensi per convincerla a fermare il tempo? Ora, al contrario, si sentiva impietrito, ma con il coraggio della disperazione si scosse. Cominciò a formulare parole senza neppure badare a grammatica e sintassi. Avrebbe potuto offrire uno scambio, avrebbe rinunciato al suo regalo di Natale, al suo avvenire, alle sue aspirazioni… La Morte rimase indifferente e lui sentì inutile ogni sforzo. Fu allora, che gli balenò in mente una tradizione medievale che raccontava di un uomo che una volta sconfisse la Morte. Fu un tutt’uno. Georges spinse con forza la sponda e il traballante letto metallico di sua madre ruotò su sé stesso. Abbatté il comodino, frantumò la lampada, volarono in aria gli oggetti.

La Morte, sbigottita, si trovò inaspettatamente ai piedi del letto, svuotata di ogni potere. Lo trafisse con lo sguardo, ma non proferì parola. Era solo questione di tempo – anche su questo il giovane non ebbe dubbi – perché sarebbe tornata di nuovo in quella casa e non solo per sua madre. Un tepore lieve sembrò diffondersi nella stanza, perché il caminetto riattivò spontaneamente la fiamma. Fu allora che Georges trasalì a sentirsi stringere la mano. Sua madre, con voce flebile, gli raccomandava di far presto a cenare, perché le campane già annunciavano la messa di mezzanotte.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay  

Grazia Deledda – Il dono di Natale

di Grazia Deledda

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiaccioli, appariva come uno di quegli edifici fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

— Ben tornato, Felle.

— Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

— Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con bucce di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

— Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca1.

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava. Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

— La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.

Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.

La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

— La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

— Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.

Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

— Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare.
E il popolo rispondeva: — Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolio della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto, la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?

— Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

— È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

1 È una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay 

Milano: Un presepe con 60 personaggi dipinti su carta da Francesco Londonio

Fino al 6 febbraio 2022, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano presenta uno dei capolavori d’arte sacra del XVIII secolo milanese: il Presepe del Gernetto,così chiamato dal luogo di provenienza, Villa del Gernetto a Lesmo in Brianza, composto da circa 60 personaggi, dipinti su carta o cartoncino sagomati alti dai 35 ai 60 cm.

La maggior parte di essi sono stati dipinti da Francesco Londonio (1723-1783), uno dei più importanti artisti lombardi del Settecento, specializzato proprio in presepi, in scene campestri e raffigurazioni di animali.

MILANO
DAL 25 NOVEMBRE 2021 AL 6 FEBBRAIO 2022
AL MUSEO DIOCESANO CARLO MARIA MARTINI

IL PRESEPE DI CARTA
DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)

Il presepe di carta di Francesco Londonio

L’opera, entrata nelle collezioni del museo nel 2018, grazie alla donazione di Anna Maria Bagatti Valsecchi, proviene dalla collezione Cavazzi della Somaglia, ed è uno dei pochi presepi settecenteschi lombardi di questo tipo.

L’iniziativa, curata da Nadia Righi e Alessia Devitini, rispettivamente direttrice e conservatrice del Museo Diocesano di Milano, si tiene in occasione delle celebrazioni per il ventesimo anniversario di storia del Museo Diocesano di Milano.

Lo scenografico presepe era destinato, in origine, a essere allestito durante il periodo natalizio occupando un intero salone di Villa del Gernetto, acquistata nel 1772 dal Conte Giacomo Mellerio (1711-1782), presso la quale il Londonio era solito passare lunghi periodi di villeggiatura.

Nel corso dell’Ottocento, gli eredi Mellerio, quando fu chiara l’importanza e la rarità del complesso, fecero montare le sagome entro cornici ovali o rettangolari che furono usate come decoro stabile per i saloni della residenza brianzola.

Il Presepe del Gernetto, noto alla critica, è citato nella storiografia e in tutte le pubblicazioni dedicate a Francesco Londonio e al presepe in Lombardia.

La mostra è anche lo spunto per riflettere sulle origini del presepe e sulla sua storia e su una tradizione diventata così popolare e, in particolare, sui cosiddetti “presepi di carta”, che si diffondono a partire dal XVII secolo, con figure dipinte a tempera o a olio su carta, cartone e su tavole di legno, e più tardi anche stampate. Queste sagome, di per sé bidimensionali, una volta collocate nello spazio in un contesto realizzato ad hoc acquistavano una teatralità e una sorta di tridimensionalità, anche grazie alla presenza di un’ambientazione, di uno sfondo, di un sistema di quinte teatrali, divenendo di fatto un vero e proprio presepe. A Francesco Londonio spetta un ruolo d’indubbio primo piano tra i maggior artefici e promotori di questa tradizione in Italia. Più tardi la tipologia dei “presepi di carta” si diffonde anche a mezzo stampa raggiungendo una diffusione molto ampia.

Le scene principali del presepe sono state restaurate nell’ambito della XIX edizione del programma Restituzioni di Intesa Sanpaolo.

Altre figure sono state restaurate grazie alla generosità dell’Associazione Volontari del Museo Diocesano.

Accompagna la mostra un catalogo Silvana Editoriale.


IL PRESEPE DI CARTA DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)
Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini (p.zza Sant’Eustorgio, 3)
25 novembre 2021 – 6 febbraio 2022

Orari:
martedì- domenica, 10-18
Chiuso lunedì

Biglietti:
intero, € 8,00
Ridotto e gruppi, € 6,00
Scuole e oratori, € 4,00

Informazioni: T. +39 02 89420019; www.chiostrisanteustorgio.it

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche | Anna Defrancesco | T. +39 02 36755700 | M. +39 349 6107625  anna.defrancesco@clp1968.it | www.clp1968.it

IMMAGINE DI APERTURA – Il presepe di carta di Francesco Londonio, Re magio

John J. Rawlings – Tassello a espansione, 1919

Tutti conoscono i tasselli ad espansione, ma difficilmente immaginano che il prodotto industriale oggi utilizzato sia nato alla vigilia della Prima guerra mondiale per risolvere alcuni problemi riguardanti il British Museum. L’ideatore fu John Joseph Rawlings, un ingegnere britannico, che ha inventato questo funzionale sistema di fissaggio intorno al 1910-1911, che ne ha registrato un brevetto col nome Rawlplug nel 1912, che infine gli è stato riconosciuto nel 1913. Grazie al successo ottenuto, nel 1919 l’azienda, in precedenza nota come Rawlings Brothers, è stata ribattezzata Rawlplug Ltd.

John Joseph Rawlings e una pagina del suo brevetto

Per raccontare brevemente la storia di questo particolare prodotto di design, facciamo un passo indietro, al 1887, quando la Rawlings Brothers iniziò a Londra la propria attività come una piccola ditta di impianti idraulici stabilitasi in Richmond Road, South Kensington. Man mano che l’azienda cresceva i fratelli Rawlings ampliavano la propria offerta di servizi in rapporto alle mutevoli esigenze tecnologiche e alle richieste di mercato. Gli impianti elettrici vennero eseguiti a partire dai primi anni del 1890 e nel 1910 il repertorio si ampliò. L’azienda, trasferitasi nel frattempo in Gloucester Road, si interessava ormai non solo di opere elettriche, idrauliche e sanitarie, ma anche dei lavori di ingegneria, di costruzione e di decorazione degli stabili.

La narrazione vuole che nello stesso anno 1910, uno dei fratelli, John Joseph Rawlings, ingegnere edile, fosse incaricato dal British Museum di intervenire sugli impianti elettrici del museo, ma in modo discreto. Così racconta l’azienda stessa: «Il British Museum si stava preparando per una profonda ristrutturazione dell’intero edificio. A seguito dell’innovazione contemporanea, il Museo necessitava di un impianto elettrico da installare sulla facciata, in modo tale da essere celato allo sguardo dei visitatori ed evitare di danneggiare l’estetica della muratura esistente. Uno dopo l’altro, i successivi appaltatori si ritirarono dal lavoro. Tutti tranne uno, il proprietario di una piccola impresa elettrica ed edile, The Rawlings Brothers, operante sul mercato dal 1887, specializzata in impianti idraulici, lavori di riparazione e ristrutturazione edilizia». Questo appaltatore era John Joseph Rawlings, un imprenditore, un inventore e un visionario.

I responsabili della direzione museale chiedevano di inserire le viti nelle pareti, cercando di limitare al minimo i danni alle murature. Fino ad allora, agganciare qualcosa su pareti solide – non semplici tramezzi interni di legno e gesso – era un lavoro impegnativo. Richiedeva di praticare con lo scalpello un foro quadrato, bucando intonaco e muratura, per inserire al suo interno un dado di legno su cui fissare le viti o i chiodi necessari all’opera. Il risultato era sgradevole e confuso, perché in breve tempo le superfici intonacate si riducevano ad una miriade di buchi riempiti di tappi di legno. John Rawlings pensò bene che dovesse esserci un modo migliore, più semplice e più ordinato per intervenire con minor danno alle pareti.

I cilindri ad espansione in fibra grezza di iuta o canapa

La soluzione fu un piccolo cilindro in fibra grezza di iuta o canapa tenuto insieme da colla, somigliante ad un piccolo sigaro, lungo quanto la sezione filettata della vite, che sarebbe stata inserita in un piccolo foro lasciato al centro del tassello. L’operazione di fissaggio era quanto mai semplice e pratica. Dapprima si realizzava nel muro un foro pulito e “invisibile”, dello stesso diametro del tassello, utilizzando un trapano a mano. Il tassello era poi inserito nel foro e picchiettato all’interno del muro. Dopodiché si stringeva la vite nel tassello, facendolo allargare e assicurando così una perfetta tenuta per l’attrito contro le pareti del foro. L’idea di Rawlings era che “espansione significa presa”, dal momento che il tappo era pensato per adattarsi perfettamente al contorno approssimativo del foro murario non occupato dalla vite, ammorsandola alla parete.

Disegni del brevetto del 1911

La sua idea funzionò perfettamente, benché questa sorta di zeppa tessile fosse minuscola e molto più piccola dei dadi rigidi in legno tradizionali da inserire a parete, risultò comunque il più efficace elemento di fissaggio che si fosse mai visto. Come già detto, l’affermazione dell’innovativo sistema di fissaggio indusse Rawlings a depositare il brevetto nel 1911 (22680/11) col nome di Rawlplug (dove “Rawl” faceva riferimento a Rawlings e “plug” significa spina). Era nato il “tassello a espansione”. Il brevetto fu concesso il 14 gennaio 1913. Avrebbe dovuto durare 14 anni, ovvero fino al 1927, ma venne prolungato per altri quattro, fino al 1931, probabilmente per compensare l’interruzione dovuta alla Prima guerra mondiale. Un altro brevetto, nondimeno, può essere associato a quello di Rawlings: nel 1914, infatti, a inizio della Grande Guerra, la Black and Decker brevettò il primo trapano elettrico al mondo con impugnatura a pistola. Il nuovo e funzionale strumento velocizzò e semplificò al massimo le operazioni di foratura e il tassello ad espansione giocò la sua parte nel fissaggio.

Varie confezioni del prodotto vendute nel corso degli anni

Per una migliore produzione e commercializzazione del prodotto, nel 1919 i fratelli Rawlings cambiarono l’assetto dell’azienda, che da allora prese il nome di The Rawlplug Company Ltd., che operava ora da Gloucester House in Cromwell Road, mentre la parte produttiva si svolgeva nella fabbrica di Lenthall Place. Gloucester House fu ribattezzata Rawlplug House intorno al 1925 e rimase tale fino al 1965 circa. Gran parte del successo iniziale (1922-1945) è stato attribuito a massicce campagne pubblicitarie, con inserzioni a tutta pagina sui giornali nazionali. Si aggiunsero ampie partecipazioni alle esposizioni annuali in diverse parti del mondo. Il tassello fu promosso come un elemento di fissaggio assolutamente stabile. La pubblicità decantava: un tassello di medie dimensioni conficcato nel mattone reggerà mezza tonnellata, non può allentarsi o restringersi. I tasselli più grandi possono trattenere fino a quattro tonnellate (Brochure promozionale dei prodotti Rawlplugs, 1935). Rawlplug e i prodotti associati dell’azienda sono diventati rapidamente una storia di successo globale. Altri prodotti andarono ad assommarsi al primo e assicurarono lo sviluppo successivo dell’azienda. È tuttavia per l’umile ma onnipresente tassello che si ricorda ancora oggi l’azienda fondata da John Rawlings.

VEDI ANCHE: 100 anni di esperienza in fissaggi, elementi di fissaggio e strumenti

IMMAGINE DI APERTURA – Una storica confezione Rawlplug (Fonte Wikipedia)

John Spilsbury – Puzzle, 1766

Molti conoscono il puzzle, un gioco da tavolo nel quale è necessario ricomporre una figura frammentata in piccolissimi pezzi di forma irregolare. Non tutti, però, conoscono l’inventore di questo passatempo divertente: il londinese John Spilsbury, cartografo, incisore, fabbricante di mappe cittadine. La sua invenzione risale al 1766, realizzata a scopo educativo. La “Dissected Map” (mappa sezionata) è stata pensata per insegnare ai bambini la geografia. Spilsbury, infatti, decise di incollare una delle sue carte geografiche su di una tavoletta di mogano e di ridurla successivamente in piccole tessere per mezzo di un seghetto. L’idea riscosse successo ma John Spilsbury non poté goderne, poiché morì a soli 29 anni, il 3 aprile 1769. Ma altri riproposero il gioco infantile nelle proprie botteghe artigiane. I puzzle in legno per adulti furono, invece, prodotti industrialmente solo agli inizi del Novecento, realizzati tagliando un pezzo alla volta. Pertanto, erano molto costosi ed acquistati solo da un ceto abbiente per trascorrere, in solitudine o in compagnia, molte serate lunghe e noiose. Non mancava, tuttavia, chi utilizzava il gioco come intrattenimento durante le feste nelle proprie case di campagna. La passione per il gioco dilagò, quando i puzzle furono fabbricati incollando il disegno su di un supporto di cartone, successivamente ritagliato grazie ad una fustella di forma sagomata.

SPILSBURY, John (1739-1769). Europe divided into its Kingdoms. London: J. Spilsbury, [c.1766]. (Fonte Christies)

Nel 1908 viene coniato il nome che conosciamo. Il termine puzzle (enigma, rompicapo) si riferisce, infatti, ai pezzi che occorre incastrare per ricomporre la figura. Il significato inglese originario è comunque più specifico di quello italiano, perché in inglese i puzzle si chiamano “jigsaw puzzles”. L’espressione si riferisce a un gioco di pazienza, traforato con seghetto, formando un mosaico di pezzi. Il gioco divenne presto un prodotto industriale. Per la Parker Brothers i puzzle divennero il gioco più richiesto del catalogo. Fabbricati in serie, furono offerti in vari formati, in relazione del numero di pezzi. Più tesserine componevano il disegno, maggiori erano difficoltà e tempo per la risoluzione della composizione finale. Con la depressione economica degli anni Trenta il puzzle divenne un passatempo nazionale a basso costo e per tutte le tasche. Soprattutto rappresentò l’alternativa ai locali notturni, ai ristoranti, ai locali di spettacolo. Così, piuttosto che uscire, si preferiva passare le serate in famiglia. D’altra parte, le immagini offrivano di per sé una fuga fantastica dalla triste realtà del periodo: non solo carte geografiche, ma anche moderne strade ferrate, ponti vertiginosi, paesaggi nostalgici e fantasiosi. Nel 1932 nacque l’idea di regalare il rompicapo come gadget allegato ad altri prodotti, come i giornali. Esplose la mania e l’anno successivo le vendite solo negli USA raggiunsero circa dieci milioni di scatole a settimana.

Oggi i puzzle, rivolti a un pubblico adulto, sono sempre più difficili. Ce ne sono di tridimensionali, permettendo di realizzare oggetti anche molto complessi. Per esempio, i puzzle-ball sono concepiti come pezzi arrotondati, in modo che il soggetto completato prenda la forma di una palla: il mappamondo è il più peculiare fra questi. Particolari sono i puzzle double-face che propongono una doppia faccia, che potrebbe rappresentare la medesima immagine. Ci sono, al contrario, una quantità innumerevole di puzzle virtuali che si incastrano trascinando i pezzi sullo schermo di un computer.

IL PRIMO PUZZLE SUL SITO DI CHRISTIES: Europe divided into its Kingdoms

I SITI DI ALCUNE CASE PRODUTTRICI DI PUZZLE
Clementoni
Ravensburger
Hasbro
Castorland
Heye

IMMAGINE DI APERTURA – “L’Europa divisa nei suoi regni, ecc.” (1766) Si ritiene che sia il primo puzzle realizzato (Fonte Wikipedia)

Johan Vaaler – Graffetta, 1899

Sicuramente la graffetta, a filo di acciaio piegato, rafforza lo stereotipo che le idee più semplici siano le migliori. Tuttavia, come spesso accade per molte invenzioni, in particolare quelle di proporzioni minuscole e, tutto sommato, di poche pretese, le sue origini non sono del tutto certe. Secondo una comune narrazione, ripetuta senza prove valide, l’invenzione si deve a un norvegese di nome Johan Vaaler. Per conoscerlo meglio, possiamo dire che studiò fisica e matematica, laureandosi nel 1887, e dal 1892 fu impiegato nell’ufficio brevetti di Alfred Jørgen Bryn (Alfred J. Bryns Patentkontor) a Kristiania (oggi Oslo). Sviluppò l’idea della graffetta nel corso del 1899. Occorre però sapere che, all’epoca, la Norvegia non contemplava alcuna legge sui brevetti. Pertanto, il disegno di Vaaler fu accettato da una commissione governativa speciale, ma il suo inventore dovette fare affidamento su di un brevetto effettivo rilasciato in Germania. Il suo brevetto è stato il primo al mondo per una graffetta che non danneggia la carta, come è espresso nella relazione di progetto. A quei tempi, il filo di acciaio cominciava a essere disponibile grazie ai progressi tecnologici che permettevano a una macchina di piegarlo secondo una forma precisa, veloce, affidabile ed economica dal punto di vista dei costi. Il brevetto imperiale fu concesso, dunque, in Germania il 12 novembre 1899 e un altro brevetto fu rilasciato negli Stati Uniti nel 1901. Quindi, in virtù di questi atti ufficiali, Johan Vaaler risulterebbe l’inventore norvegese della graffetta. Norvegese, dunque, non mondiale. Questo perché, ad esempio, proprio in America, Matthew Schooley, in Pennsylvania, aveva depositato una domanda di brevetto nel 1896 per una “graffetta o supporto che, sebbene semplice nella sua costruzione, è facile da applicare e certo nell’esecuzione delle sue funzioni”. Un nuovo brevetto americano fu rilasciato nel 1900 a Cornelius Brosnan di Springfield, in Massachusetts.

Graffetta di Johan Vaaler

Quando Vaaler brevettò il suo progetto, disconosceva l’esistenza di una pratica graffetta, prodotta dalla società britannica Gem Manufacturing Company Ltd, ma non commercializzata in Norvegia. Era la prima graffetta a forma di doppio ovale che conosciamo ancora oggi. Era differente dagli originali brevettati da Vaaler nel 1899 e nel 1901, in quanto le due estremità arrotondate proteggono ulteriormente la carta da possibili graffi e strappi prodotti dal metallo. Altri design sono proliferati in seguito, come quello a forma di “gufo”, quello “ideale” (detto così per un numero maggiore di fogli di carta) e quello “antiscivolo”. Da tutto questo si deduce che qualsiasi tentativo di venire a capo sulle origini e sulla storia dei brevetti della graffetta può essere un esercizio del tutto inutile. Infatti, sembra che ci siano state numerosissime varianti di questo piccolo oggetto di design industriale. Una grande diversità di forme e versioni più antiche, più pratiche e forse anche più interessanti, non sono state affatto brevettate dai loro inventori. La cosa non deve sorprendere per un manufatto così semplice. Eppure, non c’è dubbio che la ricerca di forme alternative siano la risposta necessaria al fallimento di proposte non del tutto perfette.

La graffetta inventata da Johan Vaaler non ha avuto successo economico, ma ha avuto successo politico. Chi lo avrebbe mai detto! Si racconta che i norvegesi ancora oggi ricordino con orgoglio le origini dell’umile oggetto, inventato nel loro Paese, perché, durante la Seconda guerra mondiale, “fissavano graffette ai risvolti della giacca per mostrare il proprio patriottismo e irritare i tedeschi”. Infatti, dopo che la Norvegia fu occupata da Hitler nell’aprile 1940, molti norvegesi presero ad indossare una graffetta sul colletto della giacca. Era un simbolo di lealtà al re Håkon VII e al governo ritiratosi in esilio in Inghilterra. Mettere in mostra quella graffetta era proibito dagli invasori, sotto severa sanzione. Indossarla poteva portare persino all’arresto. Questo perché la funzione della graffetta di “legare insieme” dei semplici fogli di carta, ben presto assunse il significato crudamente simbolico di associare “persone unite contro le forze di occupazione”.

Francobollo commemorativo

Per concludere con un paio di curiosità, si può aggiungere che l’installazione una graffetta gigante è stata posta nella contea di Viken, in un giardino di Sandvika, nel 1989 e, dieci anni più tardi, nel 1999 è stato emesso un francobollo. Il disegno che vi appare, come la scultura, avrebbero il fine di commemorare la presunta invenzione di Vaaler. In realtà, rappresentano la comune graffetta della Gem Manufacturing Company Ltd con i due bordi arrotondati. Vatti a fidare!

Installazione a Sandvika (Norvegia)

IMMAGINE DI APERTURA  – Graffetta di Johan Vaaler

Swiss Army knife ovvero il coltellino svizzero dai molteplici usi

Chi non conosce il famoso coltello dell’esercito svizzero? La versione contemporanea porta impresso il riconoscibile motivo della croce svizzera, e quando si apre mette in vista la miriade di minuscoli utensili multifunzionali che ne hanno fatto la fortuna. Il suo inventore, Karl Elsener (1860-1918), figlio di Balthasar Elsener-Otti, apparteneva ad una lunga stirpe di mercanti di Zug, in Svizzera. Invece di continuare a vendere cappelli, Karl preferì seguire l’arte della fabbricazione di coltelli, facendo apprendistato a Parigi e Tuttlingen, in Germania, specializzandosi in strumenti chirurgici e rasoi di qualità. Dopo i primi anni come semplice artigiano, con l’aiuto economico della madre, nel 1884 aprì una sua fabbrica a Ibach, nel Cantone di Svitto, a sud di Ginevra, luogo di nascita della futura Confederazione Svizzera. Erano anni in cui la Svizzera non era ancora uno dei Paesi più ricchi d’Europa, pertanto il giovane Karl si impegnò per fare fronte alle difficoltà e alla disoccupazione della propria gente, creando posti di lavoro e contribuendo a frenare il flusso dell’emigrazione, per cercare pascoli più verdi nelle nazioni limitrofe. Per facilitare il processo produttivo, grazie alla condivisione delle risorse, fondò l’Associazione dei Maestri Coltellinai svizzeri, costituita da venticinque iscritti.

Karl Elsener non si fece sfuggire una opportunità preziosa. Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’esercito svizzero decise di preparare un bando pubblico per un nuovo coltello da tasca pieghevole. Le funzioni richieste ai produttori erano di favorire i soldati nel mangiare, per cui occorreva una lama apriscatole, e nella manutenzione del fucile in dotazione all’epoca, lo Schmidt-Rubin (Fucile da fanteria modello 1889). Occorreva dunque che il coltello, per smontare e rimontare le parti del fucile, fosse munito anche di un cacciavite a taglio e di un punteruolo. Il bando fu pubblicato a gennaio del 1891, espressamente per ricevere proposte riguardanti il modello 1890, con impugnatura in rovere annerito. Dal momento che nessuna azienda svizzera disponeva delle capacità produttive per rispettare le richieste, la prima commessa di 15.000 pezzi fu acquisita dal produttore tedesco Wester & Co. di Solingen, in Germania. I coltelli furono consegnati nell’ottobre 1891.

Modell 1890 , il primo coltellino svizzero prodotto da Wester & Co. Solingen

Nel medesimo anno anche la società di Elsener presentò la propria proposta, così come altre aziende svizzere che cominciavano ad organizzarsi in quegli anni. Tuttavia, il coltellino proposto da Elsener non riscontrò il favore auspicato, a cominciare dal prezzo, poiché l’offerta tedesca era inferiore. L’Associazione dei Maestri Coltellinai si sciolse, lasciando l’imprenditore con grosse somme da saldare. Non si diede per vinto. L’unico modo per fare fronte ai debiti era, a suo avviso, insistere, continuando a cercare di correggere i problemi riscontrati. Soprattutto il peso eccessivo per un coltello da tasca e le funzionalità limitate. L’azienda era ormai prossima alla bancarotta quando, nel 1896, Elsener ideò un nuovo prodotto di gran lunga migliorato in quanto a funzionalità e ad aspetto. Il nuovo progetto di coltellino tascabile fu registrato il 12 giugno 1897, e corrispondeva al modello attualmente conosciuto. Questa volta fu bene accolto dall’esercito svizzero ed accettato anche dal grande pubblico. Destinato inizialmente solo all’uso degli ufficiali, fu commercializzato con successo anche sul mercato internazionale, riportando presto la società di Elsener in attivo. I vantaggi del nuovo modello erano dovuti agli strumenti fissati su entrambi i lati del manico mediante uno speciale meccanismo a molla. Il nuovo modello fu diffuso col nome di Schweizer Offiziers-und Sportmesser (coltello svizzero da ufficiale e sportivo). Swiss Army knife, questo è invece il termine col quale il coltellino è conosciuto oggi, coniato dai soldati americani dopo la seconda guerra mondiale, per la difficoltà a pronunciare la parola tedesca Offiziersmesser. A partire dal 1909 Elsener utilizzò lo stemma svizzero per identificare i suoi coltelli. L’Azienda, col tempo, cambiò anche nome. Sempre nel 1909, alla morte della madre del fondatore, il marchio di fabbrica assunse la denominazione di Victoria e qualche anno più tardi, nel 1921, si chiamerà Victorinox, aggiungendo la dicitura inox con la quale già da allora si identificava, a livello internazionale, l’acciaio inossidabile. Il coltellino svizzero per il suo design è stato aggiunto alle collezioni del Museum of Modern Art di New York e del Museo statale di arte applicata di Monaco .

Strumenti e componenti 

Esistono vari modelli del coltellino svizzero con diverse combinazioni di strumenti. Di seguito sono citati quelli attuali, in continua evoluzione.

Strumenti principali:

  • Lama grande, impressa sul gambo della lama dei modelli Victorinox con “VICTORINOX SWISS MADE” per verificare l’autenticità del coltello.
  • Lama piccola
  • Lima per unghie / detergente per unghie
  • Lima per unghie / detergente per unghie / lima per metallo / sega per metallo
  • Sega per legno
  • Squama pesce / slamatore gancio / righello in cm e pollici
  • Forbici
  • Lama da elettricista / raschiafilo
  • Lama da potatura
  • Spatola farmaceutica (spingi cuticole)
  • Strumento informatico (bit driver)
  • Pinza / tronchese / pinza per fili
  • LED luce
  • Chiavetta USB
  • Lente d’ingrandimento
  • Cacciavite a stella
  • Detergente per zoccoli
  • Apri grilli / Marlinspike
  • Apriscatole / cacciavite a taglio da 3 mm
  • Apricapsule / cacciavite a taglio da 6 mm / spelafili
  • Strumento combinato contenente apricapsule / apriscatole / cacciavite a taglio da 5 mm / spelafili
  • Strumenti più piccoli:
  • Portachiavi
  • Alesatore
  • Gancio multiuso
  • Cacciavite a taglio da 2 mm
  • Scalpello
  • Cavatappi o cacciavite Phillips
  • Mini cacciavite (progettato per adattarsi all’interno del cavatappi)
  • Strumenti di scala:
  • Pinzette
  • Stuzzicadenti
  • Penna a sfera pressurizzata (con versione retrattile sui modelli più piccoli, e può essere utilizzata per impostare i DIP switch )
  • Perno inossidabile
  • Orologio digitale/sveglia/timer/altimetro/termometro/barometro

LEGGI ANCHE: Karl Elsener – Inventò il celebre coltellino rosso con la croce bianca

VAI AL SITO WEB DELL’AZIENDA PRODUTTRICE: VICTORINOX

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di PublicDomainPictures da Pixabay 

Dal reggigiornale delle Kaffeehaus al digital newspaper holder

Quante volte è capitato di vedere poltrone e tavolini di un bar occupati da habitué seduti comodamente intenti a leggere il quotidiano infilato in un reggigiornale. Capita soprattutto in quei piccoli edifici immersi nel verde lussureggiante di aristocratici parchi e giardini settecenteschi, come le Kaffeehaus, sorte apposta per sorbire in tutta tranquillità caffè e cioccolata in tazza, secondo la moda dell’epoca. Per scorrere le pagine di un giornale senza sgualcirle non si poteva fare a meno di quell’asta magica che vide luce più di due secoli fa nelle sale da caffè della Germania, dell’Austria, della Svizzera. Si diffuse soprattutto sul finire del XIX secolo e dall’inizio del successivo se ne brevettarono molteplici modelli. In definitiva da allora il design non è mutato molto, consistente due lunghe aste, in legno, in vimini, in ottone, che assicurano la piega del giornale da sfogliare. Senza questo bizzarro, quanto elegante, attrezzo, leggere un quotidiano sarebbe poco maneggevole e forse anche noioso.

In un Club per gentiluomini, un gentleman legge il “Lancet” (ma senza utilizzare il reggigiornale), un amico afferma che è noioso e gli suggerisce di fare un gioco. Incisione su legno di C. Keene, 1883.

Registrato all’ufficio brevetti nel 1907, il portagiornale in legno di faggio Odenwald ha goduto sempre di una popolarità ininterrotta. Si basa su due lunghe aste di legno che scorrendo una sull’altra si aprono, svelando le bullette alle quali assicurare le pagine. Il suo meccanismo di bloccaggio è a chiusura automatica.

La versione ideata dal falegname Fritz Hahne, è in catalogo col nome di Primus, composto da due listelli di legno che aprendosi svelano dei chiodi fissati alla barra di legno superiore, utili a perforare il giornale quando è chiuso. In questo modo le pagine sono tenute saldamente da chiodi, mentre i listelli sono assicurati contro l’apertura involontaria con una vite di bloccaggio. Il portagiornale è poi munito in testa da un gancio, aperto o chiuso, per appenderlo al muro. La ditta, fondata nel 1924, è a gestione familiare e ancora oggi continua a produrre questi oggetti in legno di abete in diversi colori, venduti quasi esclusivamente agli editori di quotidiani tedeschi, svizzeri, austriaci e olandesi con su inciso il nome della testata.

Esiste però un modello di reggigiornale, realizzato in salice, legno e metallo che non necessariamente deve assomigliare ad un bastone. È quello di Thomas Poganitsch, un cestaio viennese, che ha rilevato gli strumenti e le macchine dal fornitore di portagiornali delle caffetterie locali, il quale cessato l’attività all’età di novanta anni gli ha svelato come realizzare e ripensare il modello tradizionale.

Recentemente, tuttavia, il designer Kuno Prey ha ideato un nuovo reggigiornale che a differenza dei modelli precedenti esclude che le aste possano nascondere parte del testo. Infatti, i fogli del quotidiano sono tenuti insieme da tre aste (due in legno e una in metallo) a sezione circolare in grado di ammorsare sia riviste che quotidiani. Il nuovo modello disegnato da Pray è prodotto da Alessi dal 1996.

Oggi c’è di più. Per pubblicizzare l’edizione digitale della Neue Zürcher Zeitung, sono stati realizzati dei classici portagiornali in legno dotati di pannelli LED, con schede programmate per ricevere feed RSS tramite un trasmettitore a infrarossi. Si possono trovare in caffè, bar e ristoranti, con le notizie più aggiornate rispetto ai giornali cartacei. Miracoli dell’informatica.

IMMAGINE DI APERTURA  – Il reggigiornale del designer Kuno Prey per Alessi

Sylvia Stave – Cocktail Shaker, 1930

Questa sfera perfetta con un manico fisso ad arco è un cocktail shaker, pregevole lavoro di design prodotto nell’Officina dei Metalli del Bauhaus, sotto la direzione di László Moholy-Nagy. Dopo meticolose ricerche Peter Hahn, direttore dell’Archivio della prestigiosa scuola d’arte tedesca, ha scoperto che fu realizzata di Sylvia Stave e non da Marianne Brandte, alla quale in un primo momento lo shaker fu attribuito. Sylvia Stave, nata in Svezia, a Växjö, nel 1908, espresse la propria creatività artistica progettando e realizzando una quantità di opere in metallo, fra Stoccolma e Parigi, e lavorando prevalentemente oggetti in argento, peltro, ottone, stagno, alpacca. Nel 1929 ha iniziato a collaborare come designer della CG Hallbergs Guldsmedsaktiebolag di Stoccolma. Ad appena 23 anni, nel 1931, è stata nominata direttore artistico della stessa fabbrica, una delle più grandi aziende di gioielleria della Svezia con oltre 600 dipendenti, nota per l’alta qualità e per la collaborazione dei principali designer dell’epoca. In un’intervista a Svenska Dagbladet, Sylvia Stave ha espresso il suo amore per l’argento e la sua disapprovazione per ciò che è appariscente o imitativo. Lodando le superfici lisce e le linee rette e pulite, ha sottolineato: «Pensiamo a quanto si guadagnerebbe se le persone imparassero a capire cosa significa qualità, anche in termini di argento o peltro. Un oggetto semplice può essere altrettanto bello, anche più bello, da un punto di vista artistico di uno sontuoso!». Nel 1937 Stave si è trasferita a Parigi, dove ha ricevuto un premio all’Esposizione Mondiale. Nel 1939, ha fatto un breve ritorno nel suo paese natale per disegnare la nuova collezione Hallbergs. Si è quindi trasferita definitivamente a Parigi nel 1940, per lasciare inaspettatamente il proprio lavoro e occuparsi della vita familiare. Ha però continuato ad esercitare di tanto in tanto come disegnatrice, realizzando illustrazioni di libri. Oggi Sylvia Stave è considerata dalla critica internazionale uno dei maggiori artisti che hanno contribuito in modo determinante al design svedese moderno con i suoi oggetti sobri e immacolati. I suoi progetti per articoli domestici – quali brocche, teiere, vasi, bicchieri da tavola, piatti da portata – sono caratterizzati da una purezza di forma, volumi geometrici legati ad una estetica funzionalista. Dall’inizio della carriera, fino alla sua rinuncia dieci anni dopo, Stave si è distinta in molte mostre d’arte sia in Europa che negli Stati Uniti.

Questo shaker, nato nella scuola del Bauhaus, è molto lontano dagli shaker tradizionali che siamo abituati a utilizzare. È infatti orizzontale e non verticale, ciò perché è indirizzato a sperimentare forme estetiche a carattere geometrico – come linee diritte, quadrati, circonferenze – alla base della ricerca da cui il Bauhaus ha tratto ispirazione. Lo shaker, dalla configurazione innovativa, richiamò subito l’attenzione anche perché spingeva oltre i limiti le produzioni in metallo dell’epoca. Dal 1989, su licenza dell’Archivio Bauhaus, possiamo ancora trovare questo straordinario Cocktail Shaker nel catalogo Alessi, azienda italiana produttrice di oggetti di design, fondata nel 1921 da Giovanni Alessi. La sfera, senza apparenti giunture, prodotta attualmente in acciaio inossidabile 18/10 lucidato a specchio, anziché nella versione originaria nichelata, presenta ancora oggi difficoltà per l’attenzione e la cura che non si possono demandare esclusivamente alle macchine. Si tratta infatti di produrre due emisferi separatamente da un medesimo stampo, unirli per fusione e, quindi, lucidarli a specchio manualmente. La sfera che ne risulta è un colpo d’occhio, per la sua forma essenziale che, grazie alla posizione del manico, induce in modo del tutto naturale all’atto del versare il cocktail miscelato. Questo è anche il limite del pezzo, secondo alcuni critici, poiché evocherebbe un oggetto statico, piuttosto che un oggetto da scuotere per shakerare. Dalla critica all’oggetto si passa alla critica nei confronti dell’intera scuola del Bauhaus. Ci si domanda, infatti, fino a che punto uno shaker per cocktail possa considerarsi un contributo conveniente alla produzione di massa. Tutto ciò non considerando affatto il carattere aperto e sperimentale di questa scuola di architettura, arte e design. D’altra parte, perché limitare la fantasia? Per fare piacere ai critici? Sylvia Stave ha, infatti, prodotto diversi tipi di oggetti per la casa, oltre a shaker e bicchieri da cocktail, come documentato nella collezione del Nationalmuseum di Stoccolma, dedicata ad arti, mestieri, e design. Sylvia Stave è morta a Parigi nel 1994. Il Nationalmuseum ha più di 40 oggetti da lei realizzati, la maggior parte dei quali sono stati acquisiti nel 2013 dal collezionista tedesco-svedese Rolf Walter. Molti di questi oggetti sono stati esposti nella mostra “Donne pioniere – La forma svedese durante il periodo tra le due guerre“, al Castello di Läckö nel 2015. e successivamente ripresentata al Museo Röhsska.

GUARDA LA COLLEZIONE DI SYLVIA STAVE AL NATONALMUSEUM DI STOCCOLMA (SVEZIA)