9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – L ’esercito

9- La vita a CostantinopoliL ’esercito

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

9


Benché sapessi, prima d’arrivare a Costantinopoli, che non ci avrei più ritrovato traccia dello splendido esercito dei bei tempi antichi, pure, appena arrivato, cercai con vivissima curiosità i soldati, mia perpetua simpatia. Ma, pur troppo, trovai la realtà peggiore dell’aspettazione. In luogo delle antiche vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate, i calzoni rossi, le giacchettine scarse, i galloni da usciere, i cinturini da collegiale, e su tutte le teste, da quella del Sultano a quella del soldato, quel deplorabile fez, che oltre ad esser meschino e puerile, in specie sul cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d’infinite oftalmie ed emicranie. L’esercito turco non ha più la bellezza d’un esercito turco, non ha ancora la bellezza d’un esercito europeo; i soldati mi parvero tristi, svogliati e sudici; saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro educazione, mi basta questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in mezzo alla strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte, dove è proibito di fumare, strappar il sigaro di bocca a un viceconsole; e che nella moschea dei dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me presente, per far capire a tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e tre con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi, il meno che possa capitare è d’essere abbracciati come un sacco di cenci e portati di peso nel corpo di guardia. Per la qual cosa, in tutto il tempo che rimasi a Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati. E d’altra parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere, dopo aver visto coi miei occhi che cosa è quella gente prima di vestir l’uniforme. Vidi un giorno passare per una strada di Scutari un centinaio di reclute che venivano probabilmente dall’interno dell’Asia Minore. Mi fecero compassione e ribrezzo. Mi parve di vedere quegli spaventosi banditi d’Hassan il pazzo, che attraversarono Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar a morire sotto la mitraglia austriaca nella pianura di Pest. Vedo ancora quelle facce sinistre, quelle lunghe ciocche di capelli, quei corpi seminudi e arabescati, quegli ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono nella via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito a loro. – Debbono essere i miei amici di Scutari, – dissi in cuor mio. Essi però sono l’unica immagine pittoresca che mi sia rimasta de’ soldati musulmani. Belli eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi potesse rivedere per un minuto, dall’alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-Pascià! Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale d’Adrianopoli, quei belli eserciti mi si affacciavano alla mente come una visione luminosa, e mi soffermavo a contemplare la porta, come se di momento in momento dovesse apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere imperiali.

Il pascià quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell’esercito, con due code di cavallo, insegna della sua dignità. Dietro a lui, si vedeva di lontano un vivissimo luccichio. Erano ottomila cucchiai di rame confitti nei turbanti di ottomila giannizzeri, in mezzo ai quali ondeggiavano le penne d’airone e scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi di armi e di vivande. Dietro ai giannizzeri veniva un piccolo esercito di volontari e di paggi, colle vesti di seta, colle maglie di ferro, coi caschi luccicanti, accompagnati da una banda di musici; dietro ai paggi, i cannonieri, coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di agà, di paggi, di ciambellani, di soldati feudatari, piantati sopra cavalli corazzati e impennacchiati. E questa non era che l’avanguardia. Sopra le schiere serrate sventolavano stendardi di mille colori, ondeggiavano code di cavallo, s’urtavano lance, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali si vedevano appena le facce annerite dal sole delle guerre di Candia e di Persia; e i suoni scordati dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle timballe, la voce dei cantanti che accompagnavano i giannizzeri, il tintinnio delle armature, lo strepito delle catene, le grida di: Allà, si confondevano in un frastuono festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià si spandeva fino all’altra riva del Corno d’oro.

Oh! pittori e poeti che avete studiato amorosamente quel bel mondo orientale, svanito per sempre, aiutatemi a far uscir intero dalle vecchie mura di Stambul l’esercito favoloso di Maometto III.

L’avanguardia è passata: un altro sfolgorio s’avanza. È il Sultano? No, il Nume non è forse ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del visir favorito. Sono quaranta agà vestiti di zibellino, su quaranta cavalli dalle gualdrappe di velluto e dalle redini d’argento, a cui tiene dietro una folla di paggi e di palafrenieri pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati d’oro, carichi di scudi, di mazze e di scimitarre.

Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora il Sultano. Sono i membri della Cancelleria di Stato, i grandi dignitari del Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori e da uno sciame di volontari coi berretti purpurei ornati d’ali d’uccelli, vestiti di pellicce, di taffettà incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak ungheresi, e armati di lunghe lance fasciate di seta e inghirlandate di fiori.

Un’altra onda di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d’Adrianopoli. Non è ancora il Sultano. È il corteo del gran visir. Vien prima una folla d’archibugieri a cavallo, di furieri e d’agà benemeriti del gran Signore, e poi altri quaranta agà del gran visir in mezzo a una foresta di mille e duecento lance di bambù impugnate da mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran visir vestiti di color ranciato e armati d’archi e di turcassi ricamati d’oro, e altri duecento giovanetti divisi in sei schiere di sei colori, in mezzo ai quali cavalcano governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una turba di palafrenieri, d’armigeri, d’impiegati, di servi, di paggi, d’agà dalle vesti dorate e di vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya, ministro dell’interno, in mezzo a dodici sciaù, esecutori di giustizia, seguiti dalla banda del gran visir.

Un’altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il Sultano. È una folla di sciaù, di furieri, d’impiegati, vestiti di assise splendide, che fanno corteo ai giureconsulti, ai mollà, ai muderrì, a cui tiene dietro il gran cacciatore per le cacce al falcone, all’avvoltoio, allo sparviero ed al nibbio, seguito da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi ammaestrati alla caccia, e da una processione di falconieri, di scudieri, di squartatori, di guardiani di furetti, di drappelli di trombettieri e di mute di cani ingualdrappati e ingioiellati.

Un’altra folla compare. Gli spettatori accalcati si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il Sultano; non è la testa, ma il cuore dell’esercito; il focolare del coraggio e dell’ira sacra, l’arca santa, il carroccio dei musulmani, intorno a cui s’alzeranno mucchi di cadaveri e scorreranno torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta, l’insegna delle insegne, tolta alla moschea del Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba feroce di dervis coperti di pelli d’orso e di leone, in mezzo a una corona di sceicchi predicatori dall’aspetto ispirato, ravvolti in mantelli di pelo di cammello; fra due schiere d’emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti verdi, che levano tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di evviva, di ruggiti, di preghiere, di canti.

Esce un’altra ondata d’uomini e di cavalli. Non è ancora il Sultano. È uno stuolo di sciaù che brandiscono i loro bastoni inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice d’Asia e d’Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della folla; sono il visir favorito e il visir caimacan, coi turbanti stelleggiati d’argento e gallonati d’oro; sono tutti i visir del divano, dinanzi ai quali ondeggiano le code di cavallo tinte di henné, appese in cima a lance rosse ed azzurre; e infine i giudici dell’esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli di leopardo e armati di stocco, e paggi e armigeri e vivandieri.

Un altro barbaglio di colori e di splendori annunzia un altro corteo: è il Sultano finalmente! Non è ancora il Sultano. È il gran visir, vestito d’un caffettano purpureo foderato di zibellino; montato sopra un cavallo coperto d’acciaio e d’oro, seguito da uno sciame di servi in abito di velluto rosso, attorniato da una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei giannizzeri, fra i quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno stormo di pavoni; e dietro a costoro, fra due schiere di lancieri dai giustacuori dorati, fra due file d’arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i palafrenieri sfarzosi del serraglio che conducono per mano una frotta di cavalli arabi, turcomanni, persiani, caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia, dalle redini dorate, dalle staffe damaschinate, carichi di scudi e d’armi scintillanti di rubini e di smeraldi; e infine due cammelli consacrati, uno dei quali porta il Corano e l’altro una reliquia della Kaaba.

Passato il corteo del gran visir, scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli spettatori fuggono, il cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta mulinando le scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di lance, di pennacchi e di spade, tra uno sfolgorio abbagliante di caschi d’oro e d’argento, sotto un nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei Sultani, il re dei re, il distributore delle corone ai principi del mondo, l’ombra di Dio sulla terra, l’imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero, della Rumelia e dell’Anatolia, della provincia di Sulkadr, del Diarbekir, del Kurdistan, dell’Aderbigian, dell’Agiem, dello Sciam, di Haleb, d’Egitto, della Mecca, di Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell’Arabia e dell’Yemen e di tutte le altre provincie conquistate dai suoi gloriosi predecessori ed augusti antenati o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada fiammeggiante e trionfatrice. Il corteo solenne e tremendo passa lentamente, aprendo a quando a quando un piccolo spiraglio; e allora s’intravvedono i tre pennacchi imperlati del turbante del Dio, il viso pallido e grave e il petto lampeggiante di diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata s’allontana, le scimitarre minacciose s’abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la visione è svanita.

Al corteo imperiale tiene dietro una folla d’ufficiali di corte, di cui uno porta sul capo lo sgabello del Sultano, un altro la sciabola, un altro il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera d’argento, un sesto la caffettiera d’oro; passano altre schiere di paggi; passa il drappello degli eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti di caffettani candidi; passano le cento carrozze dell’arem dalle ruote inargentate, tratte da buoi inghirlandati di fiori o da cavalli bardati di velluto, e fiancheggiate da una legione d’eunuchi neri; passano trecento schiere di mule che portano i bagagli e il tesoro della corte, passano mille cammelli carichi di acqua, passano mille dromedari carichi di viveri; passa un esercito di minatori, d’armaioli e d’operai di Stambul, accompagnati da bande di buffoni e di giocolieri; e in fine passa il grosso dell’esercito combattente: le orte dei giannizzeri, i silidar gialli, gli azab porporini, gli spahí dalle insegne rosse, i cavalieri stranieri dagli stendardi bianchi, i cannoni che vomitano blocchi di marmo e di piombo, le milizie feudatarie dei tre continenti, i volontari selvaggi delle estreme provincie dell’impero; nuvoli di bandiere, selve di pennacchi, torrenti di turbanti, valanghe di ferro, che vanno a rovesciarsi sull’Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di sé un deserto sparso di macerie fumanti e di piramidi di teschi.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
Leggi su Wikipedia

Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

About the author: Experiences