9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli

9- La vita a Costantinopoli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

12


In casa del mio buon amico Santoro si radunavano ogni sera molti italiani: avvocati, artisti, medici, negozianti, coi quali passai delle ore carissime. Quella era una conversazione! Se fossi stato stenografo, avrei potuto cavarne ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un arem, il pittore ch’era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià, l’avvocato che aveva difeso una causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico che aveva stretto il nodo d’un amoretto internazionale, raccontavano le loro avventure, ed ogni racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali. Ogni momento se ne sentiva una nuova. Arrivava uno: – Sapete quello che è seguito stamani? Il Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. – Arrivava un altro: – Avete inteso la notizia? Il governo, dopo tre mesi, ha finalmente pagato gli stipendi agli impiegati, e Galata è inondata da un torrente di monete di rame. – Arrivava un terzo, e raccontava che un turco presidente di tribunale, irritato delle cattive ragioni colle quali un cattivo avvocato francese difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza di tutto l’uditorio: – Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per far parer buona la tua causa; la… – e aveva pronunziato in tutte lettere la parola di Cambronne – per quanto la si volti e la si rivolti, è sempre… – e aveva pronunziato un’altra volta quella parola. La conversazione, naturalmente, spaziava in un campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con cui si parla fra noi di persone e di cose di Parigi, di Vienna, di Ginevra, là si parlava di persone e di cose di Tiflis, di Trebisonda, di Teheran, di Damasco, dove uno aveva un amico, un altro c’era stato, un terzo ci voleva andare; io mi sentivo nel centro d’un altro mondo, e tutt’intorno mi si aprivano nuovi orizzonti. E qualche volta pensavo con rammarico al giorno in cui avrei dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia vita ordinaria. Come potrò più adattarmi – dicevo tra me – a quei soliti discorsi e a quei soliti casi? E questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha vissuto quella vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme. È una vita più leggiera, più facile, più giovanile di quella d’ogni altra città d’Europa. Quel viver là come accampati in un paese straniero, in mezzo a un succedersi continuo d’avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll’infondere un certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose mondane, che somiglia molto alla fede fatalistica dei musulmani, e dà una certa serenità spensierata d’avventurieri. L’indole di quel popolo che vive, come disse un poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte, considerando la vita come un pellegrinaggio, durante il quale né c’è tempo né mette conto di prefiggersi dei grandi scopi da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco a poco anche all’europeo, e lo riduce a vivere un po’ alla giornata, senza frugar troppo dentro sé stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è possibile, la parte semplice e riposata di spettatore. L’aver che fare con popoli tanto diversi, e il dover pensare e parlare un po’ a modo di tutti, dà allo spirito una certa leggerezza che lo fa come sorvolare a molti sentimenti ed idee, a cui noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il mondo, e per ottenerlo, e del non poterlo ottenere, ci affanniamo. Oltreché la presenza del popolo musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo di tutti i giorni, che rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte cure. E a questo giova anche la forma della città assai più che non potrebbero fare le città nostre, nelle quali lo sguardo e il pensiero è quasi sempre come imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là, ad ogni tratto, occhio e mente trovano una scappatoia per la quale si slanciano a immense lontananze ridenti. E c’è infine una illimitata libertà di vita, concessa dalla grandissima varietà dei costumi: là tutto si può fare, nulla stupisce; la notizia della cosa più strana muore appena uscita in quell’immensa anarchia morale; gli europei vivono là come in una confederazione di repubbliche; vi si gode la libertà che si godrebbe in qualunque città europea nel momento d’un grande trambusto; è come un veglione interminabile o un perpetuo Martedì Grasso. Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città, che non si può abitare un certo tempo, senza ricordarla poi con un sentimento quasi di nostalgia; per questo gli europei l’amano ardentemente e vi mettono radici profonde; ed è giusto in questo senso il chiamarla come i turchi «la fata dai mille amanti» o dire col loro proverbio che chi ha bevuto dell’acqua di Top-hané, – non c’è più rimedio, – è innamorato per la vita.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

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