9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – L ’esercito

9- La vita a CostantinopoliL ’esercito

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

9


Benché sapessi, prima d’arrivare a Costantinopoli, che non ci avrei più ritrovato traccia dello splendido esercito dei bei tempi antichi, pure, appena arrivato, cercai con vivissima curiosità i soldati, mia perpetua simpatia. Ma, pur troppo, trovai la realtà peggiore dell’aspettazione. In luogo delle antiche vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate, i calzoni rossi, le giacchettine scarse, i galloni da usciere, i cinturini da collegiale, e su tutte le teste, da quella del Sultano a quella del soldato, quel deplorabile fez, che oltre ad esser meschino e puerile, in specie sul cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d’infinite oftalmie ed emicranie. L’esercito turco non ha più la bellezza d’un esercito turco, non ha ancora la bellezza d’un esercito europeo; i soldati mi parvero tristi, svogliati e sudici; saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro educazione, mi basta questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in mezzo alla strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte, dove è proibito di fumare, strappar il sigaro di bocca a un viceconsole; e che nella moschea dei dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me presente, per far capire a tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e tre con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi, il meno che possa capitare è d’essere abbracciati come un sacco di cenci e portati di peso nel corpo di guardia. Per la qual cosa, in tutto il tempo che rimasi a Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati. E d’altra parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere, dopo aver visto coi miei occhi che cosa è quella gente prima di vestir l’uniforme. Vidi un giorno passare per una strada di Scutari un centinaio di reclute che venivano probabilmente dall’interno dell’Asia Minore. Mi fecero compassione e ribrezzo. Mi parve di vedere quegli spaventosi banditi d’Hassan il pazzo, che attraversarono Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar a morire sotto la mitraglia austriaca nella pianura di Pest. Vedo ancora quelle facce sinistre, quelle lunghe ciocche di capelli, quei corpi seminudi e arabescati, quegli ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono nella via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito a loro. – Debbono essere i miei amici di Scutari, – dissi in cuor mio. Essi però sono l’unica immagine pittoresca che mi sia rimasta de’ soldati musulmani. Belli eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi potesse rivedere per un minuto, dall’alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-Pascià! Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale d’Adrianopoli, quei belli eserciti mi si affacciavano alla mente come una visione luminosa, e mi soffermavo a contemplare la porta, come se di momento in momento dovesse apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere imperiali.

Il pascià quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell’esercito, con due code di cavallo, insegna della sua dignità. Dietro a lui, si vedeva di lontano un vivissimo luccichio. Erano ottomila cucchiai di rame confitti nei turbanti di ottomila giannizzeri, in mezzo ai quali ondeggiavano le penne d’airone e scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi di armi e di vivande. Dietro ai giannizzeri veniva un piccolo esercito di volontari e di paggi, colle vesti di seta, colle maglie di ferro, coi caschi luccicanti, accompagnati da una banda di musici; dietro ai paggi, i cannonieri, coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di agà, di paggi, di ciambellani, di soldati feudatari, piantati sopra cavalli corazzati e impennacchiati. E questa non era che l’avanguardia. Sopra le schiere serrate sventolavano stendardi di mille colori, ondeggiavano code di cavallo, s’urtavano lance, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali si vedevano appena le facce annerite dal sole delle guerre di Candia e di Persia; e i suoni scordati dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle timballe, la voce dei cantanti che accompagnavano i giannizzeri, il tintinnio delle armature, lo strepito delle catene, le grida di: Allà, si confondevano in un frastuono festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià si spandeva fino all’altra riva del Corno d’oro.

Oh! pittori e poeti che avete studiato amorosamente quel bel mondo orientale, svanito per sempre, aiutatemi a far uscir intero dalle vecchie mura di Stambul l’esercito favoloso di Maometto III.

L’avanguardia è passata: un altro sfolgorio s’avanza. È il Sultano? No, il Nume non è forse ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del visir favorito. Sono quaranta agà vestiti di zibellino, su quaranta cavalli dalle gualdrappe di velluto e dalle redini d’argento, a cui tiene dietro una folla di paggi e di palafrenieri pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati d’oro, carichi di scudi, di mazze e di scimitarre.

Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora il Sultano. Sono i membri della Cancelleria di Stato, i grandi dignitari del Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori e da uno sciame di volontari coi berretti purpurei ornati d’ali d’uccelli, vestiti di pellicce, di taffettà incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak ungheresi, e armati di lunghe lance fasciate di seta e inghirlandate di fiori.

Un’altra onda di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d’Adrianopoli. Non è ancora il Sultano. È il corteo del gran visir. Vien prima una folla d’archibugieri a cavallo, di furieri e d’agà benemeriti del gran Signore, e poi altri quaranta agà del gran visir in mezzo a una foresta di mille e duecento lance di bambù impugnate da mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran visir vestiti di color ranciato e armati d’archi e di turcassi ricamati d’oro, e altri duecento giovanetti divisi in sei schiere di sei colori, in mezzo ai quali cavalcano governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una turba di palafrenieri, d’armigeri, d’impiegati, di servi, di paggi, d’agà dalle vesti dorate e di vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya, ministro dell’interno, in mezzo a dodici sciaù, esecutori di giustizia, seguiti dalla banda del gran visir.

Un’altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il Sultano. È una folla di sciaù, di furieri, d’impiegati, vestiti di assise splendide, che fanno corteo ai giureconsulti, ai mollà, ai muderrì, a cui tiene dietro il gran cacciatore per le cacce al falcone, all’avvoltoio, allo sparviero ed al nibbio, seguito da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi ammaestrati alla caccia, e da una processione di falconieri, di scudieri, di squartatori, di guardiani di furetti, di drappelli di trombettieri e di mute di cani ingualdrappati e ingioiellati.

Un’altra folla compare. Gli spettatori accalcati si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il Sultano; non è la testa, ma il cuore dell’esercito; il focolare del coraggio e dell’ira sacra, l’arca santa, il carroccio dei musulmani, intorno a cui s’alzeranno mucchi di cadaveri e scorreranno torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta, l’insegna delle insegne, tolta alla moschea del Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba feroce di dervis coperti di pelli d’orso e di leone, in mezzo a una corona di sceicchi predicatori dall’aspetto ispirato, ravvolti in mantelli di pelo di cammello; fra due schiere d’emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti verdi, che levano tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di evviva, di ruggiti, di preghiere, di canti.

Esce un’altra ondata d’uomini e di cavalli. Non è ancora il Sultano. È uno stuolo di sciaù che brandiscono i loro bastoni inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice d’Asia e d’Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della folla; sono il visir favorito e il visir caimacan, coi turbanti stelleggiati d’argento e gallonati d’oro; sono tutti i visir del divano, dinanzi ai quali ondeggiano le code di cavallo tinte di henné, appese in cima a lance rosse ed azzurre; e infine i giudici dell’esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli di leopardo e armati di stocco, e paggi e armigeri e vivandieri.

Un altro barbaglio di colori e di splendori annunzia un altro corteo: è il Sultano finalmente! Non è ancora il Sultano. È il gran visir, vestito d’un caffettano purpureo foderato di zibellino; montato sopra un cavallo coperto d’acciaio e d’oro, seguito da uno sciame di servi in abito di velluto rosso, attorniato da una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei giannizzeri, fra i quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno stormo di pavoni; e dietro a costoro, fra due schiere di lancieri dai giustacuori dorati, fra due file d’arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i palafrenieri sfarzosi del serraglio che conducono per mano una frotta di cavalli arabi, turcomanni, persiani, caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia, dalle redini dorate, dalle staffe damaschinate, carichi di scudi e d’armi scintillanti di rubini e di smeraldi; e infine due cammelli consacrati, uno dei quali porta il Corano e l’altro una reliquia della Kaaba.

Passato il corteo del gran visir, scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli spettatori fuggono, il cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta mulinando le scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di lance, di pennacchi e di spade, tra uno sfolgorio abbagliante di caschi d’oro e d’argento, sotto un nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei Sultani, il re dei re, il distributore delle corone ai principi del mondo, l’ombra di Dio sulla terra, l’imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero, della Rumelia e dell’Anatolia, della provincia di Sulkadr, del Diarbekir, del Kurdistan, dell’Aderbigian, dell’Agiem, dello Sciam, di Haleb, d’Egitto, della Mecca, di Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell’Arabia e dell’Yemen e di tutte le altre provincie conquistate dai suoi gloriosi predecessori ed augusti antenati o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada fiammeggiante e trionfatrice. Il corteo solenne e tremendo passa lentamente, aprendo a quando a quando un piccolo spiraglio; e allora s’intravvedono i tre pennacchi imperlati del turbante del Dio, il viso pallido e grave e il petto lampeggiante di diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata s’allontana, le scimitarre minacciose s’abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la visione è svanita.

Al corteo imperiale tiene dietro una folla d’ufficiali di corte, di cui uno porta sul capo lo sgabello del Sultano, un altro la sciabola, un altro il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera d’argento, un sesto la caffettiera d’oro; passano altre schiere di paggi; passa il drappello degli eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti di caffettani candidi; passano le cento carrozze dell’arem dalle ruote inargentate, tratte da buoi inghirlandati di fiori o da cavalli bardati di velluto, e fiancheggiate da una legione d’eunuchi neri; passano trecento schiere di mule che portano i bagagli e il tesoro della corte, passano mille cammelli carichi di acqua, passano mille dromedari carichi di viveri; passa un esercito di minatori, d’armaioli e d’operai di Stambul, accompagnati da bande di buffoni e di giocolieri; e in fine passa il grosso dell’esercito combattente: le orte dei giannizzeri, i silidar gialli, gli azab porporini, gli spahí dalle insegne rosse, i cavalieri stranieri dagli stendardi bianchi, i cannoni che vomitano blocchi di marmo e di piombo, le milizie feudatarie dei tre continenti, i volontari selvaggi delle estreme provincie dell’impero; nuvoli di bandiere, selve di pennacchi, torrenti di turbanti, valanghe di ferro, che vanno a rovesciarsi sull’Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di sé un deserto sparso di macerie fumanti e di piramidi di teschi.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Editoria: I romanzi di Lella Dellea in promozione estiva

Cerchi qualcosa di piacevole da leggere durante la tua prossima vacanza? 
Durante l’estate senti l’esigenza di rilassarti e vorresti leggere qualcosa di piacevole ma non “vuoto”?
I romanzi dell’autrice Lella Dellea fanno al caso tuo e sono in promozione per tutta l’estate!

Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù, Un racconto ironico leggero e frizzante

Immagina tre ragazze che si accingono ad affrontare una settimana di prova in una libreria molto particolare.
In soli sette giorni avranno modo di conoscersi e di vivere mille piccole avventure e disavventure, senza contare il finale con il botto!
La breve storia di Milena, Colette e Bruna (dette Mimì, Cocò e Bubù) è un esempio di come la vita, tra un sorriso e l’altro, può riservarci continue sorprese.
“Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù” ti strapperà un sorriso, o più di uno, attraverso un racconto verosimile e paradossale allo stesso tempo, con sottile ironia e tanta allegria.

Un racconto leggero ironico e divertente, per rilassarsi e sorridere.

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Conquiste, un romanzo originale, una storia intrigante raccontata a 5 voci

I cambiamenti fanno paura, ma sono necessari per crescere e cambiare.
Con questo spirito Stella, una giovane mamma sceglie di accettare un lavoro in un paesino delle Prealpi Lombarde e di iniziare una nuova avventura.

Circondata da vecchi e nuovi amici, lei affronterà situazioni inaspettate, dovrà fare i

conti con uno spasimante particolarmente insistente e barcamenarsi tra innumerevoli conquiste.

Questo romance contemporaneo è appunto la narrazione di uno spaccato di vita narrata da cinque voci

differenti (Stella, Laura, Giulia, Paolo e Michele), per avere un quadro sfaccettato e

completo degli eventi.

Il termine “Conquiste” racchiude molti significati, anche mettersi alla prova, superare i propri limiti, sperimentare qualcosa di nuovo è una conquista.

Ė con questo spirito che l’autrice ha voluto raccontare la storia da ben 5 voci differenti. 

Un’impresa ardua, ma anche intrigante e istruttiva.
“Conquiste” è un romanzo molto originale nella trama, nei protagonisti, nei contenuti e nelle emozioni che Lella Dellea ha voluto trasmettere.

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Lella (Raffaella) Dellea – biografia

Nata e cresciuta sulle sponde del Lago Maggiore ama leggere e scrivere da quando ne ha memoria.
Si occupa di crescita personale, formazione e content writing.
Oltre ad una serie di racconti brevi e a una raccolta di poesie ha pubblicato dei romanzi rosa: “Con l’Africa…nel cuore” nel 2018 e “Conquiste” nel 2021.
A dicembre 2022 ha pubblicato anche il racconto ironico “Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù”.


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

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Staff Radio Nord Borealis: https://www.radionordborealis.it/ 

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli eunuchi

9- La vita a Costantinopoli – Gli eunuchi

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Ma vi sono altri esseri, a Costantinopoli, che fanno più compassione dei cani, e son gli eunuchi, i quali, come s’introdussero fra i turchi malgrado i precetti formali del Corano che condannano questa infame degradazione della natura, sussistono ancora, malgrado la legge recente che ne proibisce il traffico, poiché è più forte della legge la scellerata avidità dell’oro che fa commettere il delitto, e l’egoismo spietato che se ne vale. Questi disgraziati s’incontrano ad ogni passo nelle strade, come s’incontrano, ad ogni passo nella storia. In fondo a ogni quadro della storia turca, campeggia una di queste figure sinistre, colle fila d’una congiura nel pugno; coperto d’oro o intriso di sangue, vittima, o favorito, o carnefice, palesemente od occultamente formidabile, ritto come uno spettro all’ombra del trono, o affacciato allo spiraglio d’una porta misteriosa. Così per Costantinopoli, in mezzo alla folla affaccendata dei bazar, tra la moltitudine allegra delle Acque dolci, fra le colonne delle moschee, accanto alle carrozze, nei piroscafi, nei caicchi, in tutte le feste, in tutte le folle, si vede questa larva d’uomo, questa figura dolorosa, che fa colla sua persona una macchia lugubre su tutti gli aspetti ridenti della vita orientale. Scemata l’onnipotenza della corte, è scemata la loro importanza politica, come rilassandosi la gelosia orientale, è diminuita la loro importanza nelle case private; i vantaggi del loro stato son quindi molto scaduti; essi non trovano più che assai difficilmente nella ricchezza e nella dominazione un compenso alla loro sventura; non si trovano più i Ghaznefer Agà che consentono alla mutilazione per diventar capi degli eunuchi bianchi; tutti sono ora certamente vittime, e vittime senza conforti; comprati o rubati bambini, in Abissinia od in Siria, uno su tre sopravvissuti al coltello infame, e rivenduti in onta alla legge, con una ipocrisia di segretezza, più odiosa d’un aperto mercato. Non c’è bisogno di farseli indicare, si riconoscono all’aspetto. Son quasi tutti d’alta statura, grassi, flosci, col viso imberbe e avvizzito, corti di busto, lunghissimi di gambe e di braccia. Portano il fez, un lungo soprabito scuro, i calzoni all’europea e uno staffile di cuoio d’ippopotamo, che è l’insegna del loro ufficio. Camminano a lunghi passi, mollemente, come grandi bambini. Accompagnano le signore a piedi o a cavallo, davanti e dietro le carrozze, quando uno, quando due insieme, e rivolgono sempre intorno un occhio vigilante, che al menomo sguardo o atto irriverente di chi passa, piglia un’espressione di rabbia ferina che mette paura e ribrezzo. Fuor di questi casi, il loro viso o non dice assolutamente nulla, o non esprime che un tedio infinito d’ogni cosa. Non mi ricordo d’averne visto ridere alcuno. Ce ne sono dei giovanissimi, che par che abbiano cinquant’anni; dei vecchi, che sembrano adolescenti invecchiati in un giorno; dei molto pingui, tondi, molli, lucidi, che sembrano enfiati o ingrassati apposta come bestie suine; tutti vestiti di panni fini, puliti e profumati come damerini vanitosi. Ci sono degli uomini senza cuore che passando accanto a quei disgraziati li guardano e ridono. Costoro credono forse che, essendo così come sono fin dall’infanzia, non comprendano la loro sventura. Si sa invece che la comprendono e che la sentono; ma se anche non si sapesse, come si potrebbe dubitarne? Non appartenere ad alcun sesso, non essere che una mostra d’uomo; vivere in mezzo agli uomini e vedersene separati da un abisso; sentir fremere la vita intorno a sé, come un mare, e dovervi rimanere in mezzo, immobili e solitari come uno scoglio; sentire tutti i propri pensieri e tutti i sentimenti strozzati da un cerchio di ferro che nessuna virtù umana potrà mai spezzare; aver perpetuamente dinanzi un’immagine di felicità, a cui tutto tende, intorno a cui tutto gira, di cui tutto si colora e s’illumina, e sentirsene smisuratamente lontani, nell’oscurità, in un vuoto immenso e freddo, come creature maledette da Dio; essere anzi i custodi di quella felicità, la barriera che l’uomo geloso mette fra i suoi piaceri ed il mondo, il puntello con cui assicura la sua porta, il cencio con cui copre il suo tesoro; e dover vivere tra i profumi, in mezzo alle seduzioni, alla gioventù, alla bellezza, ai tripudi, colla vergogna sulla fronte, colla rabbia nell’anima, disprezzati, scherniti, senza nome, senza famiglia, senza madre, senza un ricordo affettuoso, segregati dall’umanità e dalla natura, ah! dev’essere un tormento che la mente umana non può comprendere, come quello di vivere con un pugnale confitto nel cuore. E questa infamia si sopporta ancora, questi sventurati passeggiano per le vie di una città d’Europa, vivono in mezzo agli uomini, e non urlano, non mordono, non uccidono, non sputano in viso all’umanità codarda che li guarda senza arrossire e senza piangere, e fa delle associazioni internazionali per la protezione dei gatti e dei cani! La loro vita non è che un supplizio continuo. Quando le donne non li trovano arrendevoli ai loro intrighi, li odiano come carcerieri e come spie, e li torturano con una civetteria crudele, sino a farli diventar furiosi o insensati, come il povero eunuco nero delle Lettere persiane quando metteva nel bagno la sua signora. Tutto è sarcasmo per loro: portano dei nomi di profumi e di fiori, per allusione alle donne di cui sono custodi: sono possessori di giacinti, guardiani di gigli, custodi di rose e di viole. E qualche volta amano, gli sciagurati! perché in loro delle passioni sono spenti gli effetti, non le cause; e son gelosi, e si rodono e piangono lagrime di sangue; e qualche volta, quando uno sguardo procace si fissa in volto alla loro donna, e s’accorgono che è corrisposto, perdono la ragione e percuotono. Al tempo della guerra di Crimea un eunuco diede una frustata in viso ad un ufficiale francese, e questi gli spaccò il cranio con una sciabolata. Chi può dire che cosa soffrano, come li desoli la bellezza, come li strazi un vezzo, come li trafigga un sorriso, e quante volte mentre al loro orecchio arriva il suono d’un bacio, la loro mano afferra il manico del pugnale! Non è meraviglia che nel vuoto immenso del loro cuore non attecchiscano per lo più che le passioni fredde dell’odio, della vendetta e dell’ambizione; che crescano acri, mordaci, pettegoli, pusillanimi, feroci; che siano o bestialmente devoti o astutissimamente traditori, e che quando sono potenti, cerchino di vendicarsi sull’uomo dell’affronto che fu fatto in loro alla natura. Ma per quanto siano intristiti, sentono sempre nel cuore il bisogno prepotente della donna, e poiché non possono averla amante, la cercano amica; si ammogliano; sposano delle donne incinte, come Sunbullù, il grand’eunuco di Ibraim I, per avere un bambino da amare; si fanno un arem di vergini, come il grand’eunuco di Ahmed II, per avere almeno lo spettacolo della bellezza e della grazia, l’amplesso affettuoso, un’illusione d’amore; adottano una figliuola per aver un seno di donna su cui chinare la testa quando son vecchi, per non morire senza sapere che cos’è una carezza, per sentire nei loro ultimi anni una voce amorosa dopo aver sentito per tutta la vita il riso dell’ironia e del disprezzo; e non son rari quelli che, arricchiti alla corte o nelle grandi case, dove esercitano insieme l’ufficio di capi degli eunuchi e d’intendenti, si comprano, vecchi, una bella villetta sul Bosforo, e là cercano di dimenticare, di sopire il sentimento della propria sventura nell’allegrezza delle feste e dei conviti. Fra le molte cose che mi furono dette di questi infelici, una mi è rimasta viva più di tutte nella memoria; ed è un giovane medico di Pera che me l’ha raccontata. Confutando gli argomenti di chi crede che gli eunuchi non soffrano: – Una sera, – mi disse, – uscivo dalla casa d’un ricco musulmano, dov’ero andato a visitare per la terza volta una delle sue quattro mogli malata di cuore. All’uscire come all’entrare m’aveva accompagnato un eunuco gridando le solite parole: – donne, ritiratevi! – per avvertir signore e schiave che un uomo era nell’arem, e che non dovevano lasciarsi vedere. Quando fui nel cortile, l’eunuco mi lasciò, ed io mi diressi solo verso la porta. Nel punto che stavo per aprire, mi sentii toccare il braccio, e voltandomi, mi vidi dinanzi, così tra il chiaro e lo scuro, un altro eunuco, un giovanetto di diciotto o vent’anni, di aspetto simpatico, che mi guardava fisso con gli occhi umidi di lagrime. Gli domandai che cosa voleva. Titubò un momento a rispondere, poi m’afferrò una mano con tutt’e due le mani, e stringendomela convulsivamente mi disse con una voce tremante, in cui si sentiva un dolore disperato: – Dottore! Tu che sai un rimedio per tutti i mali, non ne sapresti uno per il mio? – Io non so dire quello che produssero in me queste semplici parole; volli rispondere, mi mancò la voce, e non sapendo né che fare né che dire, apersi bruscamente la porta e fuggii. Ma per tutta quella sera e per molti giorni dopo, mi parve di vedere quel giovane e di sentir quelle parole, e più d’una volta dovetti far forza a me stesso per non piangere di pietà. – O filantropi, pubblicisti, ministri, ambasciatori, e voi, signori deputati al Parlamento di Stambul e senatori della mezzaluna, levate un grido, in nome di Dio, perché questa sanguinosa ignominia, questa orrenda macchia dell’onore umano, non sia più nel ventesimo secolo che una memoria dolorosa come le carneficine della Bulgaria.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I cani

9- La vita a CostantinopoliI cani

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Ianghen Var
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L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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E allora sarà anche sparita da Costantinopoli una delle sue curiosità più curiose, che sono i cani. Qui proprio voglio lasciar correre un po’ la penna perché l’argomento lo merita. Costantinopoli è un immenso canile: tutti l’osservano appena arrivati. I cani costituiscono una seconda popolazione della città, meno numerosa, ma non meno strana della prima. Tutti sanno quanto i Turchi li amino e li proteggano. Non ho potuto sapere se lo facciano per il sentimento di carità che raccomanda il Corano anche verso le bestie; o perché li credano, come certi uccelli, apportatori di fortuna, o perché li amava il Profeta, o perché ne parlano le loro sacre storie, o perché, come altri pretende, Maometto il Conquistatore si conduceva dietro un folto stato maggiore canino che entrò trionfante con lui per la breccia di porta San Romano. Il fatto è che li hanno a cuore, che molti turchi lasciano per testamento delle somme cospicue per la loro alimentazione, e che quando il sultano Abdul-Mejid li fece portar tutti nell’isola di Marmara, il popolo ne mormorò, e quando ritornarono, li ricevette a festa, e il Governo, per non provocar malumori, li lasciò in pace per sempre. Però, siccome il cane, secondo il Corano, è un animale immondo, e ogni turco, ospitandolo, crederebbe di contaminare la casa, così nessuno degli innumerevoli cani di Costantinopoli ha padrone. Formano tutti insieme una grande repubblica di vagabondi liberissimi, senza collare, senza nome, senza uffici, senza casa, senza leggi. Fanno tutto nella strada; vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini, e vi muoiono; e nessuno, almeno a Stambul, li disturba minimamente dalle loro occupazioni e dai loro riposi. Essi sono i padroni della via. Nelle nostre città è il cane che si scansa per lasciar passare i cavalli e la gente. Là è la gente, sono i cavalli, i cammelli, gli asini che fanno anche un lungo giro per non pestare i cani. Nei luoghi più frequentati di Stambul, quattro o cinque cani raggomitolati e addormentati proprio nel bel mezzo della strada, si fanno girare intorno per una mezza giornata tutta la popolazione d’un quartiere. E lo stesso accade a Pera e a Galata, benché qui siano lasciati in pace non già per rispetto, ma perché sono tanti, che a volerseli cacciare di fra i piedi, bisognerebbe non far altro che tirar calci e legnate dal momento che s’esce di casa al momento che si ritorna. A mala pena si scomodano quando, nelle strade piane, si vedono venire addosso una carrozza a tiro a quattro, che va come il vento, e non ha più tempo di deviare. Allora si alzano, ma non prima dell’ultimo momento, quando hanno le zampe dei cavalli a un filo dalla testa, e trasportano stentatamente la loro pigrizia quattro dita più lontano: lo strettissimo necessario per salvare la vita. La pigrizia è il tratto distintivo dei cani di Costantinopoli. Si accucciano in mezzo alle strade, cinque, sei, dieci in fila od in cerchio, arrotondati in maniera che non paiono più bestie, ma mucchi di sterco, e lì dormono delle giornate intere, fra un viavai e uno strepito assordante, e non c’è né acqua, né sole, né freddo che li riscuota. Quando nevica, rimangono sotto la neve; quando piove, restano immersi nella mota fin sopra la testa, tanto che poi, alzandosi, paiono cani sbozzati nella creta, e non ci si vede più né occhi, né orecchie, né muso. A Pera e a Galata, però, son meno indolenti che a Stambul, perché ci trovano meno facilmente da mangiare. A Stambul sono in pensione, a Pera e a Galata mangiano alla carta. Sono le scope viventi delle strade. Quello che rifiutano i maiali, per loro è ghiottoneria. Fuor che i sassi mangiano tutto, e appena hanno tanto in corpo da non morire, tornano a raggomitolarsi in terra e ridormono fin che non li sveglia la fame. Dormono quasi sempre nello stesso luogo. La popolazione canina di Costantinopoli è divisa per quartieri come la popolazione umana. Ogni quartiere, ogni strada è abitata, o piuttosto posseduta da un certo numero di cani, parenti ed amici, che non se ne allontanano mai, e non vi lasciano penetrare stranieri. Esercitano una specie di servizio di polizia. Hanno i loro corpi di guardia, i loro posti avanzati, le loro sentinelle fanno la ronda e le esplorazioni. Guai se un cane d’un altro quartiere, spinto dalla fame, s’arrischia nei possedimenti dei suoi vicini! Una frotta di cagnacci insatanassati gli piomba addosso, e se lo coglie, lo finisce; se non può coglierlo, lo insegue rabbiosamente fino ai confini del quartiere. Sino ai confini, non più in là; il paese nemico è quasi sempre rispettato e temuto. Non si può dare un’idea delle battaglie, dei sottosopra che seguono per un osso, per una bella, o per una violazione di territorio. Ogni momento si vede una frotta di cani stringersi furiosamente in un gruppo intricato e confuso, e sparire in un nuvolo di polvere, e lì urli e latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; poi la frotta si sparpaglia, e a traverso il polverio diradato si vedono distese sul terreno le vittime della mischia. Amori, gelosie, duelli, sangue, gambe rotte e orecchie lacerate, son l’affare d’ogni momento. Alle volte se ne radunano tanti e fanno tali baldorie davanti a una bottega, che il bottegaio e i garzoni son costretti ad armarsi di stanghe e di seggiole e a fare una sortita militare in tutte le regole per sgombrare la strada; e allora si sentono risuonare teste e schiene e pance, e ululati che fanno venir giù l’aria. A Pera e a Galata in specie, quelle povere bestie sono tanto malmenate, tanto abituate a toccare una percossa ogni volta che vedono un bastone, che al solo sentir battere sul ciottolato un ombrello o una mazzina, o scappano o si preparano a scappare; ed anche quando sembra che dormano, tengono quasi sempre un occhio socchiuso, un puntino impercettibile di pupilla, con cui seguono attentissimamente, anche per un quarto d’ora filato, e a qualunque distanza, tutti i più leggeri movimenti di qualsiasi oggetto che abbia apparenza d’un bastone. E son così poco assuefatti a trattamenti umani, che basta, passando, accarezzarne uno, che dieci altri accorrono saltellando, mugolando, dimenando la coda, e accompagnano il protettore generoso fino in fondo alla strada, cogli occhi luccicanti di gioia e di gratitudine. La condizione d’un cane a Pera e a Galata è peggiore, ed è tutto dire, di quella d’un ragno in Olanda, che è l’essere più perseguitato di tutto il regno animale. Non si può, vedendoli, non credere che ci sia anche per loro un compenso dopo morte. Anch’essi, come ogni altra cosa a Costantinopoli, mi destavano una reminiscenza storica; ma era un’amara ironia; erano i cani delle cacce famose di Baiazet, che correvano per le foreste imperiali dell’Olimpo colle gualdrappine di porpora e coi collari imperlati. Quale diversità di condizione sociale! La loro sorte infelice dipende anche in parte dalla loro bruttezza. Sono quasi tutti cani della razza dei mastini o dei can lupi, e ritraggono un po’ del lupo e della volpe; o piuttosto non ritraggono di nulla; sono orribili prodotti d’incrociamenti fortuiti, screziati di colori bizzarri, della grandezza dei così detti cani da macellaio, e magri che se ne possono contar le costole a venti passi. La maggior parte poi, oltre alla magrezza, son ridotti dalle risse in uno stato che, se non si vedessero camminare, si piglierebbero per carcami di cani macellati. Se ne vedono colla coda mozza, colle orecchie monche, col dorso spelato, col collo scorticato, orbi d’un occhio, zoppi di due gambe, coperti di guidaleschi e divorati dalle mosche; ridotti agli ultimi termini a cui si può ridurre un cane vivente; veri avanzi della fame, della guerra e della vaga venere. La coda, si può dire che è un membro di lusso: è raro il cane di Costantinopoli che la serbi intera per più di due mesi di vita pubblica. Povere bestie! metterebbero pietà in un cuore di sasso; eppure, si vedono qualche volta potati e rosicchiati in un modo così strano, si vedono camminare con certi dondolamenti così svenevoli, con certi barcollii così grotteschi, che non si possono trattenere le risa. E non son né la fame né la guerra né le legnate il loro peggiore flagello: è un uso crudele invalso da qualche tempo a Galata e a Pera. Sovente, di notte, i pacifici peroti sono svegliati nei loro letti da un baccano indiavolato; e affacciandosi alle finestre, vedono giù nella strada una ridda spaventevole di cani che spiccano salti altissimi, e fanno rivoltoloni furiosi e battono capate tremende nei muri; e la mattina all’alba la strada è coperta di cadaveri. È il dottorino o lo speziale del quartiere, che avendo l’abitudine di studiare la notte, e non volendo esser disturbati dalla canea, si sono procurati una settimana di silenzio con una distribuzione di polpette. Queste ed altre cagioni fanno sì che il numero dei cani diminuisca continuamente a Pera e a Galata; ma a che pro? Intanto a Stambul crescono e si moltiplicano, sin che non trovando più alimento nella città turca, migrano a poco a poco all’altra riva, e riempiono nella famiglia sterminata tutti i vuoti che v’han fatto le battaglie, la carestia e il veleno.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Editoria: Ripart-Endo, il libro sull’endometriosi di Tiziana Genito

Un libro molto importante per tutte le donne che combattono contro l’endometriosi

Il titolo completo del libro, a cura di Tiziana Genito è “Ripart-Endo – Storie di persone affette da Endometriosi”. Infatti nelle pagine di questo libro troverete una serie di storie vere di donne affette da endometriosi, donne che si sono rialzate perché la vita è bella.
L’autrice ha voluto offrire alle donne uno strumento per imparare a conoscere ii segnali, i campanelli d’allarme dell’endometriosi.
Così da trovare la forza di andare avanti nonostante tutto, nonostante il dolore ti pieghi in due, rendendoti le giornate pesanti.
La prima storia che si trova nel libro è proprio la testimonianza di Tiziana, che vive la patologia in prima persona.

Racconta l’autrice: “L’endometriosi è una malattia che non mia ha fatto vivere serenamente la mia gioventù, che non mi ha fatto mai sentire una donna normale, che mi ha fatto vivere sempre in una costante paura del dolore.
Ho affrontato la paura di non avere figli.
Questa patologia mi ha devastata dentro, fuori e psicologicamente: odiavo una delle parti più impostanti di me: quella che genera la vita e quella che in me generava solamente dolore.
E sempre lei, l’endometriosi, ancora oggi non mi lascia: mi accompagna tutti i giorni.
L’endometriosi per questa società, vale meno di un tumore e poco più di un ciclo mestruale, ma su questa malattia bisogna fare più informazione.
Non si tratta di un capriccio della ragazza che ne soffre, non sono dei semplici dolori legati al ciclo mestruale: l’endometriosi se non diagnosticata e trattata per tempo, può trasformarsi in un vero e proprio inferno.

Chi è Tiziana Genito

Tiziana Genito è laureanda in giurisprudenza e si occupa di volontariato a tempo pieno.
Da tre anni è attivista e tutor dell’associazione La voce di una è la voce di tutte, associazione no profit che si occupa di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’endometriosi:
Sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione in tutta la provincia di Frosinone con ben 29 endopack® inaugurate, le panchine gialle che troverete in varie città.
In più uno sportello endometriosi ad Isola del Liri (Frosinone), in programma ha ancora tanti progetti pronti a decollare.

Il libro Ripart-Endo è stato scritto e pubblicato da Tiziana Genito completamente in self. È disponibile per l’acquisto su ilmiolibro.it:

Per avere informazioni ed acquistarlo direttamente dall’autrice, potete mandarle un messaggio sulla pagina Facebook RipartEndo,

oppure via e-mail genitotiziana972@gmail.com o whatsapp 327.39.79.070.


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

Travel Blogger: https://www.iriseperiplotravel.com
Staff Radio Nord Borealis: https://www.radionordborealis.it/ 

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Costantinopoli futura

9- La vita a CostantinopoliCostantinopoli futura

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Questo pensiero m’assaliva sovente, contemplando Costantinopoli dal ponte della Sultana-Validè. Che cosa sarà questa città fra uno o due secoli, anche se i Turchi non siano cacciati d’Europa? Ahimè! Il grande olocausto della bellezza alla civiltà sarà già consumato. Io la vedo quella Costantinopoli futura, quella Londra dell’Oriente che innalzerà la sua maestà minacciosa e triste sulle rovine della più ridente città della terra. I colli saranno spianati, i boschetti rasi al suolo, le casette multicolori atterrate; l’orizzonte sarà tagliato da ogni parte dalle lunghe linee rigide dei palazzi, delle case operaie e degli opifici, in mezzo a cui si drizzerà una miriade di camini altissimi d’officine, e di tetti piramidali di campanili; lunghe strade diritte e uniformi divideranno Stambul in diecimila parallelepipedi enormi; i fili del telegrafo s’incroceranno come un’immensa tela di ragno sopra i tetti della città rumorosa; sul ponte della Sultana-Validè non si vedrà più che un torrente nero di cappelli cilindrici e di berrette; la collina misteriosa del Serraglio sarà un giardino zoologico, il Castello delle Sette torri un penitenziario, l’Ebdomon un museo di storia naturale; tutto sarà solido, geometrico, utile, grigio, uggioso, e una immensa nuvola oscura velerà perpetuamente il bel cielo della Tracia, a cui non s’alzeranno più né preghiere ardenti né occhi innamorati né canti di poeti. Quando quest’immagine mi si presentava, sentivo proprio una stretta al cuore; ma poi mi consolavo pensando: – Chi sa che qualche sposa italiana del secolo ventunesimo, venendo qui a fare il suo viaggio di nozze, non esclami qualche volta: – Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia più come la descrive quel vecchio libro tarlato dell’Ottocento che ritrovai per caso in fondo all’armadio della nonna!

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Il vestire

9- La vita a CostantinopoliIl vestire

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

5


Questo è veramente il periodo di tempo migliore per veder la popolazione musulmana di Costantinopoli, perché nel secolo scorso era troppo uniforme e sarà probabilmente troppo uniforme nel secolo venturo. Ora si coglie quel popolo nell’atto della sua trasformazione, e perciò presenta una varietà meravigliosa. Il progresso dei riformatori, la resistenza dei vecchi turchi, e le incertezze e le transazioni della grande massa che ondeggia fra quei due estremi, tutte le fasi, insomma, della lotta fra la nuova e la vecchia Turchia, sono fedelmente rappresentate dalla varietà dei vestimenti. Il vecchio turco inflessibile porta ancora il turbante, il caffettano e le scarpe tradizionali di marocchino giallo; e i più ostinati fra i vecchi un turbante più voluminoso. Il turco riformato porta un lungo soprabito nero abbottonato fin sotto il mento e i calzoni scuri colle staffe, non conservando altro di turco che il fez. Fra questi, però, i giovani più arditi hanno già buttato via il lungo soprabito nero, portano panciotti aperti, calzoni chiari, cravattine eleganti, gingilli, mazza e fiori all’occhiello. Fra quelli e questi, fra chi porta caffettano e chi porta soprabito, v’è un abisso; non v’è più altro di comune che il nome; sono due popoli affatto diversi. Il turco del turbante crede ancora fermamente al ponte Sirath, che passa sopra all’inferno, più sottile d’un capello e più affilato d’una scimitarra; fa le sue abluzioni alle ore debite, e si rincasa al calar del sole. Il turco del soprabito si ride del Profeta, si fa fotografare, parla francese e passa la sera al teatro. Fra l’uno e l’altro vi son poi i titubanti, dei quali alcuni hanno ancora il turbante, ma piccolissimo, in modo che potranno inaugurare il fez senza scandalo; altri portano ancora il caffettano, ma hanno già inaugurato il fez; altri vestono ancora all’antica, ma non han più né cintura né babbucce, né colori vistosi; e a poco a poco butteranno via tutto il resto. Le donne soltanto conservano tutte l’antico velo e il mantello che nasconde le forme; ma il velo è diventato trasparente e lascia intravvedere un cappelletto piumato, e il mantello copre spesso una veste tagliata sul figurino di Parigi. Ogni anno cadono migliaia di caffettani e sorgono migliaia di soprabiti; ogni giorno muore un vecchio turco e nasce un turco riformato. Il giornale succede al tespì, il sigaro al cibuk, il vino all’acqua concia, la carrozza all’arabà, la grammatica francese alla grammatica araba, il pianoforte al timbur, la casa di pietra alla casa di legno. Tutto si altera, tutto si trasforma. Forse tra meno d’un secolo bisognerà andar a cercare i resti della vecchia Turchia in fondo alle più lontane provincie dell’Asia Minore, come si va a cercare quelli della vecchia Spagna nei villaggi più remoti dell’Andalusia.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Le rassomiglianze

9- La vita a CostantinopoliLe rassomiglianze

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Nei primi giorni, fresco com’ero di letture orientali, vedevo da ogni parte i personaggi famosi delle storie e delle leggende, e le figure che me li rammentavano, somigliavano qualche volta così fedelmente a quelle che m’ero foggiate coll’immaginazione, ch’ero costretto a fermarmi per contemplarle. Quante volte ho afferrato per un braccio il mio amico, e accennandogli una persona che passava, gli dissi: – Ma è lui, cospetto! non lo riconosci? – Nella piazzetta della Sultana-Validè ho visto molte volte il turco gigante che dalle mura di Nicea rovesciava i macigni sulle teste dei soldati del Buglione; ho visto dinanzi a una moschea Umm Dgiemil, la vecchia megera della Mecca, che spargeva i rovi e le ortiche dinanzi alla casa di Maometto; ho trovato nei bazar dei librai, con un volume sotto il braccio, Digiemal-eddin, il gran dotto di Brussa, che sapeva a memoria tutto il dizionario arabo; son passato accanto ad Aiscié, la sposa prediletta del Profeta, che mi fissò in volto i suoi occhi lucenti e umidi come la stella nel pozzo; ho riconosciuto nell’At- meidan la bellezza famosa della povera greca uccisa ai piedi della colonna serpentina da una palla dei cannoni d’Orban; mi son trovato faccia a faccia, allo svolto d’una stradetta del Fanar, con Kara-Abderrahman, il più bel giovane turco dei tempi d’Orkano; ho riconosciuto Coswa, la cammella di Maometto; ho ritrovato Karabulut, il cavallo nero di Selim; ho visto il povero poeta Fighani condannato a girare per Stambul legato a un asino, per aver ferito con un distico insolente il gran visir d’Ibrahim; ho trovato in un caffè Solimano il grosso, l’ammiraglio mostruoso, che quattro schiavi robusti riuscivano appena a sollevar dal divano; Alì, il gran visir, che non trovò in tutta l’Arabia un cavallo che lo reggesse; Mahmut Pascià, l’ercole feroce che strozzò il figlio di Solimano; e lo stupido Ahmet II che ripeteva continuamente: Kosc! Kosc! – va bene, va bene – accovacciato dinanzi alla porta del bazar dei copisti, vicino alla piazza di Bajazet. Tutti i personaggi delle Mille e una notte, gli Aladini, le Zobeidi, i Sindbad, le Gulnare, i vecchi mercanti ebrei possessori di tappeti fatati e di lampade meravigliose, mi sfilarono dinanzi, come una processione di fantasmi.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Le memorie

9- La vita a CostantinopoliLe memorie

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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In nessun’altra città d’Europa i luoghi e i monumenti leggendari o storici muovono così vivamente la fantasia come a Stambul, poiché in nessun’altra città essi ricordano avvenimenti così recenti ad un tempo e così fantastici. Altrove, per ritrovar la poesia delle memorie, bisogna tornar indietro col pensiero di parecchi secoli; a Stambul, basta retrocedere di pochi anni. La leggenda, o ciò che ha natura ed efficacia di leggenda, è di ieri. Sono pochi anni che nella piazza dell’At-meidan fu consumata l’ecatombe favolosa dei Giannizzeri; pochi anni che il mar di Marmara rigettò sulla riva dei giardini imperiali i venti sacchi che racchiudevano le belle di Mustafà; che nel castello delle Sette torri fu scannata la famiglia di Brancovano; che due capigì-basci trattenevano per le braccia gli ambasciatori europei al cospetto del Gran Signore, del quale non appariva che mezzo il viso, rischiarato da una luce misteriosa; e che fra le mura dell’antico serraglio cessò quella vita così stranamente intrecciata d’amori, d’orrori e di follie, che ci pare già tanto lontana. Girando per Stambul con questi pensieri, si prova quasi un sentimento di stupore al veder la città così quieta, così ridente di vegetazione e di colori. Ah, perfida! – si direbbe, – che cos’hai fatto di quei’ monti di teste e di quei laghi di sangue? Possibile che tutto sia già così ben nascosto, spazzato, lavato, che non se ne ritrovi più traccia? Sul Bosforo, in faccia alla torre di Leandro che sorge dalle acque come un monumento d’amore, sotto le mura dei giardini del Serraglio, si vede ancora il piano inclinato per cui si facevano rotolare nel mare le odalische infedeli; in mezzo all’At-meidan la colonna serpentina porta ancora la traccia della sciabolata famosa di Maometto il Conquistatore; sul ponte di Mahmut si segna ancora il luogo dove il sultano focoso freddò con un fendente il dervis temerario che gli scagliò in volto l’anatema; nella cisterna dell’antica chiesa di Balukli, guizzano ancora i pesci miracolosi che vaticinarono la caduta della città dei Paleologhi; sotto gli alberi delle Acque dolci d’Asia si accennano ancora i recessi dove una Sultana dissoluta imponeva ai favoriti d’un istante un amore che finiva colla morte. Ogni porta, ogni torre, ogni moschea, ogni piazza, rammenta un prodigio, una strage, un amore, un mistero, una prodezza di Padiscià o un capriccio di Sultana; tutto ha la sua leggenda, e quasi per tutto gli oggetti vicini, le vedute lontane, l’odore dell’aria e il silenzio, concorrono a portar l’immaginazione dello straniero, che s’immerge in quei ricordi, fuori del suo secolo e della città dell’oggi e di sé stesso; tanto che accade sovente, a Stambul, di riscotersi improvvisamente alla strana idea di dover tornare all’albergo. Come? – si pensa, – c’è un albergo?

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli uccelli

9- La vita a CostantinopoliGli uccelli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Costantinopoli ha una gaiezza e una grazia sua propria, che le viene da un’infinità d’uccelli d’ogni specie, per i quali i Turchi nutrono un vivo sentimento di simpatia e di rispetto. Moschee, boschi, vecchie mura, giardini, palazzi, tutto canta, tutto gruga, tutto chiocciola, tutto pigola; per tutto si sente frullo d’ali, per tutto c’è vita e armonia. I passeri entrano arditamente nelle case e beccano nella mano dei bimbi e delle donne; le rondini fanno il nido sulle porte dei caffè e sotto le volte dei bazar; i piccioni, a sciami innumerevoli, mantenuti con lasciti di Sultani e di privati, formano delle ghirlande bianche e nere lungo i cornicioni delle cupole e intorno ai terrazzi dei minareti; i gabbiani volteggiano festosamente intorno ai caicchi, migliaia di tortorelle amoreggiano fra cipressi dei cimiteri; intorno al castello delle Sette torri crocitano i corvi e rotano gli avvoltoi; gli alcioni vanno e vengono in lunghe file fra il mar Nero e il mar di Marmara; e le cicogne gloterano sulle cupolette dei mausolei solitari. Per il Turco ognuno di questi uccelli ha un senso gentile o una virtù benigna: le tortore proteggono gli amori, le rondini scongiurano gl’incendi dalle case dove appendono il nido, le cicogne fanno ogni inverno un pellegrinaggio alla Mecca, gli alcioni portano in paradiso le anime dei fedeli. Così egli li protegge e li alimenta per gratitudine e per religione, ed essi gli fanno festa intorno alla casa, sul mare e tra i sepolcri. In ogni parte di Stambul si è sorvolati, circuiti, rasentati dai loro stormi sonori, che spandono per la città l’allegrezza della campagna e rinfrescano continuamente nell’anima il sentimento della natura.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.