Face Festival Aspromondo XII edizione: Residenze artistiche in Aspromonte (Calabria) fra arte, natura e sostenibilità

Francesco Scialò, Ti vedo nel buio della notte camminare tra i rami
Aspromondo Face Festival 2022©Giorgia Foti

FACE FESTIVAL Aspromondo

XII EDIZIONE • 6/16 AGOSTO 
ASPROMONTE (Calabria)

Il primo progetto di residenza artistica in Aspromonte 
fra arte, natura e sostenibilità

Al via la dodicesima edizione del Face Festival, primo progetto di residenza artistica in Aspromonte: un’esperienza di immersione naturale tra i profili montani e le suggestioni ancestrali del Parco Nazionale dell’Aspromonte, nella splendida cornice dell’Ex Vivaio Forestale Cucullaro e tra i boschi di Gambarie di Santo Stefano in Aspromonte, per riscoprire le meraviglie nascoste della “montagna bianca” in Calabria attraverso un percorso di simbiosi tra arte, natura e uomo. 

FACE Festival 12 – Aspromondo è un evento contaminante che ha saputo rompere gli argini dell’arte musealizzata innescando estemporaneità emotive, fruizioni condizionate non più dalla rigida struttura espositiva ma dal trasporto empatico, dal coinvolgimento passionale. 

Diretto dall’art director e docente Paolo Genoese e dal regista Giacomo Triglia, nasce in sinergia tra il Comune di Santo Stefano in Aspromonte, l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e Face Festival. Un progetto che punta a rafforzare il legame tra arte e territorio, attraverso un ciclo di attività, spazi creativi e una residenza artistica, che danno agli artisti l’opportunità di entrare in contatto con esperienze, luoghi, culture e modi di fare arte differenti. Ciò permette loro di dedicarsi totalmente al proprio lavoro, sostenendone inoltre il processo creativo e il lavoro stesso. 

L’idea generatrice del progetto è quella di ospitare creativi provenienti dalle Accademie di Belle Arti italiane nonché artisti uniti da un comune obiettivo: realizzare in Aspromonte un museo a cielo aperto: il Bosco degli Artisti; per chi vuole scoprire le bellezze del territorio montano attraverso sentieri naturalistici e da oggi anche percorsi artistici. 

Obiettivo principale del progetto è quello di valorizzare in modo totalmente inedito il territorio: il Massiccio Montuoso dell’Appennino Calabro, attivando processi e scambi creativi, volti alla creazione di un nuovo sentiero, un nuovo luogo, che possa essere conosciuto con uno sguardo attento e innovativo puntando sulla forza dell’arte contemporanea e della sinergia magica fra luogo e artisti. Occuparsi attivamente del rapporto fra territorio e uomo, attraverso il gesto artistico, promuovere strategie di consumo alternativo e a basso impatto ambientale, utilizzando il veicolo culturale, il talento, la capacità di creazione e aggregazione, come motori per vivere e scoprire i luoghi. 

Lanciata sulle pagine social la call per giovani registe/i che vogliano raccontare per immagini attraverso un corto il rapporto fra arte e natura, attraverso il loro linguaggio espressivo, amplificando la mission del progetto.

Preview del Festival fissata il 31 luglio con il workshop “Adotta un robot” tenuto dall’artista, graphic designer, art director, Massimo Sirelli in collaborazione con il Museo e Parco archeologico nazionale di Locri Epizefiri .

Un appuntamento per grandi e piccini che potranno esplorare e costruire misurando la loro creatività il loro Robot giocattolo, utilizzando materiali di recupero, lasciandosi guidare da un’artista, punto di riferimento in Italia per l’arte applicata al concetto di upcycling, quella forma di creatività attraverso la quale materiali di scarto vengono trasformati in oggetti di valore esponenziale.

I creativi protagonisti della residenza, in partenza il 6 agosto, realizzeranno le loro opere in uno scenario naturalistico fortemente suggestivo, dalla bellezza autentica e “selvaggia”, attivando attraverso il linguaggio artistico, curiosità e interazione da parte di un numero sempre crescente di visitatori, di un piccolo museo incastonato nei boschi calabresi.

Da Maria Wozniak artista tessile e stilista canadese che si ispira all’ambiente naturale e all’esplorazione di pratiche sostenibili, al collettivo Zeroottouno la cui poetica artistica va verso una graduale attenzione al lavorio tecnico e all’uso alternato di procedimenti tradizionali e tecnologici che li ha portati oggi a spaziare il loro operato, dalla ceramica, alla scultura, alla meccanica, all’elettronica, alla fotografia, antropologia e geografia,  passando per lo scultore Tonino Denami che nel marmo e nel legno incide la sua poetica legata all’essenziale, l’arte del togliere e il collettivo artistico multidisciplinare Galleria Technè che esplora il rapporto tra l’uomo e ambiente urbano o naturale, tra sé stessi e il mondo.

E ancora l’artista visivo Giuseppe Negro, che dal recupero, rilettura e rivisitazione di quanto attiene al passato basa gli elementi fondanti della sua ricerca, una sorta di metodologia nella sua complessa operazione artistica, che si sostanzia della necessità di far rivivere la memoria sopita dal tempo e minacciata dall’oblio, lo scultore Paolo Infortuna la cui ricerca artistica si muove lungo linee e forme dal linguaggio universale di conoscenza e confronto, la scenografa Federica Sorace che orienta la sua ricerca su interattività e multimedialità, Larissa Mollace il cui stile personale è ibrido tra fotografia e inchiostro, la scultrice e scenografa Tamara Marino il cui linguaggio artistico sperimentale miscela tutte le principali arti figurative, cercando connessioni coi nuovi linguaggi performativi e musicali e altri ancora da annunciare nei prossimi giorni.

L’idea generatrice del progetto è quella di ospitare, creativi provenienti dalle Accademie di Belle Arti italiane nonché artisti uniti da un comune obiettivo: realizzare in Aspromonte un museo a cielo aperto: il bosco degli artisti: per chi vuole scoprire le bellezze del territorio montano attraverso sentieri naturalistici e da oggi anche percorsi artistici. 

Obiettivo principale del progetto è quello di valorizzare in modo totalmente inedito il territorio: il Massiccio Montuoso dell’Appennino Calabro, attivando processi e scambi creativi, volti alla creazione di un nuovo sentiero, un nuovo luogo, che possa essere conosciuto con uno sguardo attento e innovativo puntando sulla forza dell’arte contemporanea e della sinergia magica fra luogo e artisti.

Lanciata sulle pagine social la call per giovani registe/i che vogliano raccontare per immagini attraverso un corto il rapporto fra arte e natura, attraverso il loro linguaggio espressivo, amplificando la mission del progetto.

Il Festival lancia infine viviAspromondo: la possibilità di collaborare con alcuni degli artisti in residenza  e interagire attraverso un percorso di costruzione partecipata alle opere che arricchiranno quest’anno il Bosco degli artisti.

Un progetto dal valore fortemente sociale che risiede in una caleidoscopio di risorse e di stimoli tradizionali e moderni che attraverso l’evento diventano proposte concrete di rinnovamento culturale per la Calabria.

FACE Festival 12 – Aspromondo è tra gli Eventi di promozione culturale 2022 cofinanziati dalla Regione Calabria, con risorse PAC 2014/2020-AZIONE 6.8.3.


FACE FESTIVAL Aspromondo

“Adotta un robot” WORKSHOP di Massimo Sirelli
31 luglio ore 10.30  – Museo e Parco archeologico nazionale di Locri Epizefiri

Riscalda i motori Face Festival Aspromondo, primo progetto di residenza artistica in Aspromonte: un’esperienza di immersione naturale tra i profili montani e le suggestioni ancestrali del Parco Nazionale dell’Aspromonte, nella splendida cornice dell’Ex Vivaio Forestale Cucullaro e tra i boschi di Gambarie di Santo Stefano in Aspromonte, per riscoprire le meraviglie nascoste della “montagna bianca” in Calabria attraverso un percorso di simbiosi tra arte, natura e uomo. 

Preview del Festival fissata il 31 luglio con il workshop “Adotta un robot” tenuto dall’artista, graphic designer, art director, Massimo Sirelli in collaborazione con il Museo e Parco archeologico nazionale di Locri Epizefiri .

Un appuntamento per grandi e piccini che potranno esplorare e costruire misurando la loro creatività il loro Robot giocattolo, utilizzando materiali di recupero e di scarto.

Un progetto quello di Sirelli, nato nel 2013 dalla voglia di sperimentare una forma di creatività consapevole che metta in primo piano l’aspetto emozionale della materia attraverso la cultura del riuso applicata al design. 

Punto di riferimento in Italia per l’arte applicata al concetto di upcycling, quella forma di creatività attraverso la quale materiali di scarto vengono trasformati in oggetti di valore esponenziale, Sirelli ha dato vita negli anni a decine di robot, ognuno dei quali è dotato di una personalissima identità e ha una sua storia da raccontare utilizzando oggetti raccolti dai mercati, dagli scaffali e dalle strade di tutto il mondo, 

I suoi robot sono stati scelti come testimonial da diversi marchi italiani, sono comparsi in diversi film e serie e sono presenti in diversi musei in tutto il mondo.

Cultura e creatività saranno al centro di questo workshop dedicato ai più piccoli che Sirelli tiene periodicamente in tutta Italia (tra cui Fondazione Prada a Milano, nelle maggiori piazze d’Italia con RICREA, Wired Next Fest.). 

Lanciata sulle pagine social la call del Festival per giovani registe/i che vogliano raccontare per immagini attraverso un corto il rapporto fra arte e natura, attraverso il loro linguaggio espressivo, amplificando la mission del progetto.


Contatti
www.facefestival.org
www.instagram.com/facefestival
www.facebook.com/facefestival10

UFFICIO STAMPA:
Daccapo Comunicazione
info@daccapocomunicazione.it

Verde Grazzano: conferme e novità in mostra al Parco del Castello di Grazzano Visconti

Verde Grazzano, una delle edizioni passate

Verde Grazzano 2023:
un’edizione zeppa di conferme e novità

Parco del Castello di Grazzano Visconti (Pc)

dal 22 al 24 settembre 2023

Nessuna pausa estiva per gli organizzatori di Verde Grazzano: l’obiettivo è offrire, dal 22 al 24 settembre nel Parco del Castello di Grazzano Visconti, nel piacentino, un’edizione imperdibile della manifestazione, e su questo si continua a lavorare.
L’elenco delle “blue chips” dei vivaisti confermati alla manifestazione florovivaistica è notevole: si va dalle Rose Barni ai trevigiani Vivai Priolada Oscar Tintori Vivai a Rifnik di Gorazd Mauer.

Ma si punta anche, molto caparbiamente, a proporre novità, cosa che nel settore non è impresa semplice.

Eccone alcune in ordine sparso. Per la prima volta a Verde Grazzano giungeranno i Vivai Tibi, con alcune tra le piante più amate e richieste dal pubblico, le azalee, i rododendri e le acidofile più belle. Si annunciano nuove varietà, frutto di recentissime cultivar.  Michael Schick dalla Germania porta i suoi semi di pomodoro: ne presenta ben 930 varietà, una delle collezioni più estese al mondo.

Restando nei prodotti dell’orto, i peperoncini proposti da Filippo e Sara di B-Orto Peppers vi daranno la sveglia. Arrivano da Gemona del Friuli dove hanno creato la loro azienda, una piccola nicchia piccante. “Il peperoncino è – affermano Filippo e Sara – tante cose: un ortaggio ma anche una spezia, un motore di convivialità, una sfida aperta e una scoperta in termini di gusto e sfumature.

Liviana Nifantani porterà a Verde Grazzano la sua consueta collezione di arbusti autoctoni e rari. Varietà particolari, dimenticate e riscoperte. Tra le novità proposte per l’occasione: la camelia gialla e la magnolia michella champaca.

Per gli appassionati di piante carnivore, Carnivorous Farm di Federico Palaia dara’ appuntamento nel suo stand per una lezione pubblica nel corso della quale farà conoscere le sue silenziose ma voraci creature. “Scopri come queste affascinanti piante catturano e digeriscono insetti e piccoli animali. Impara a coltivarle con successo e scopri i loro meccanismi di cattura. È un’opportunità imperdibile per gli appassionati della natura e della biologia!” è il suo invito.

New Entry anche “Fratelli Gramaglia“, il vivaio piemontese di piante aromatiche tra i più importanti e prestigiosi in Europa. Paolo e Marco ne collezionano e offrono più di 1.500 varietà dai 4 angoli del mondo. Anche loro offrono l’opportunità di conoscerle meglio, di approfondire il loro uso alimentare o cosmetico, le loro esigenze per ottenere da esse il meglio.  Data l’attenzione che il pubblico mostra verso questo genere di piante c’è da star sicuri che le lezioni di Paolo e Marco avranno ampio seguito.

Altra new entry è Il giardino di famiglia. La flower farm porta a Verde Grazzano “la più grande collezione in Italia, e seconda in Europa, di dalie fiorite in vaso. Più di 700 varietà, numero che continua a implementarsi per la continua ricerca di nuove cultivar, attraverso rapporti con le società della dalia europee e mondiali. “Porteremo inoltre, assicura la signora Rosanna Nicoletti, che sarà personalmente a Verde Grazzano, una grande varietà di tulipani, come i parrot e double, giacinti, narcisi e altre bulbose a fioritura primaverile”.  

I cactus sono in tutti i sensi degli ever green, con un numero di estimatori sempre più ampio. Sia per la bellezza delle forme e soprattutto dei fiori, ma anche perché danno la sensazione di richiedere meno cure. A presentarne un’amplissima collezione è Planet Cactus, specializzata soprattutto nelle succulente.  

Altro settore che affascina molti è quello dei bonsai. Verde Grazzano ha il piacere di accogliere per la prima volta quelli dello Studio Botanico. Salvatore Liporace, grande esperto e professionista, raramente accetta l’invito di mostre di florovivaismo. Anche lui proporrà, con le sue longeve creazioni, lezioni a chi vorrà acquisirle o approfondire l’arte del bonsai.

È un ritorno quello di Zia Nina Flower Farm. Il suo stand nella scorsa edizione di Verde Grazzano ha entusiasmato il pubblico per il suo allestimento: è stato di gran lunga il più fotografato e postato. La vulcanica Zia Nina mostrerà come creare meraviglie con i fiori recisi di stagione.  

Un ritorno che sarà sicuramente apprezzato è anche quello di Hoya Mia di Silvia Bellini, mitica specialista in piante Hoya. Ne presenta più di 200 varietà, imperdibili per i molti innamorati dei “fiori di cera”.

Tutto questo, e molto di più, a Verde Grazzano 2023, dal 22 al 24 settembre nel Parco del Castello di Grazzano Visconti. Appuntamento da segnare, ovviamente in verde, in agenda.


verdegrazzano.it
info@verdegrazzano.it
IG: verdegrazzano
FB: Verde Grazzano  
 
Main Partner: Allianz S.p.A.
In collaborazione con FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano – Delegazione di Piacenza
In collaborazione con Stihl
Con il supporto di Grandi Giardini Italiani
Con il patrocinio di:
Destinazione Turistica Emilia
IAT Valnure e Valchero
Comune di Vigolzone

Ufficio Stampa: Studio ESSECI
Sergio Campagnolo +39 049 663499
Ref. Roberta Barbaro – roberta@studioesseci.net

3- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Il ponte

3- Il ponte

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Per vedere la popolazione di Costantinopoli bisogna andare sul ponte galleggiante, lungo circa un quarto di miglio, che si stende dalla punta più avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno d’oro, in faccia alla grande moschea della sultana Validè. L’una e l’altra riva sono terra europea; ma si può dire che il ponte unisce l’Europa all’Asia, perché in Stambul non v’è d’europeo che la terra, ed hanno colore e carattere asiatico anche i pochi sobborghi cristiani che le fanno corona. Il Corno d’Oro, che ha l’aspetto d’un fiume, separa, come un oceano, due mondi. Le notizie degli avvenimenti d’Europa, che circolano per Galata e per Pera, vive, chiare, minute, commentate, non giungono all’altra riva che monche e confuse come un eco lontano; la fama degli uomini e delle cose più grandi dell’Occidente, s’arresta dinanzi a quella poc’acqua, come dinanzi a un baluardo insuperabile; e su quel ponte dove passano centomila persone al giorno, non passa ogni dieci anni un’idea.

Stando là, si vede sfilare in un’ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili, che s’incontrano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto, presentando uno spettacolo del quale non sono certamente che una pallida immagine i mercati delle Indie, le fiere di Niinj-Norgorod e le feste di Pekino.

Per veder qualche cosa bisogna fissarsi un piccolo tratto del ponte e non guardare che lì; se si vaga cogli occhi, la vista s’abbarbaglia e la testa si confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli. S’immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi sociali; non si giungerà mai ad avere un’idea della favolosa confusione che si vede là nello spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di facchini turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi enormi, s’avanza una portantina intarsiata di madreperla e d’avorio, a cui fa capolino una signora armena; e ai due lati un beduino ravvolto in un mantello bianco e un vecchio turco col turbante di mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un giovane greco seguito dal suo dracomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col gran cappello conico e la tonaca di pelo di cammello, che si scansa per lasciar passare la carrozza d’un ambasciatore europeo, preceduta da un battistrada gallonato. Tutto questo non si vede, s’intravvede. Prima che vi siate voltati indietro, vi trovate in mezzo a una brigata di Persiani col berrettone piramidale d’astrakan, passati i quali vi vedete dinanzi un ebreo insaccato in un lungo vestito giallo aperto sui fianchi; una zingara scapigliata, che porta un bambino in un sacco appeso alla schiena; un prete cattolico, con bastone e breviario; mentre in mezzo a una folla confusa di greci, di turchi e d’armeni, s’avanza gridando: – Largo! – un grosso eunuco a cavallo che precede una carrozza turca, dipinta a fiori e ad uccelli, con dentro le donne d’un arem, vestite di violetto e di verde, e ravvolte in grandi veli bianchi; e dietro, una suora di carità d’uno spedale di Pera, seguita da uno schiavo africano che porta una scimmia, e da un raccontatore di storie in abito di negromante. E, cosa naturale, ma che par strana al nuovo venuto, tutta questa gente così diversa s’incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di Londra; nessuno si ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede uno che sorrida. L’albanese colle sottanine bianche e i pistoloni alla cintura, passa accanto al tartaro vestito di pelle di montone; il turco a cavallo a un asino bardato con gran pompa, guizza fra due file di cammelli; dietro all’aiutante di campo dodicenne d’un principino imperiale, piantato sopra un corsiero arabo, barcolla un carro carico delle masserizie bizzarre d’una casa turca; la mussulmana a piedi, la schiava velata, la greca colla berrettina rossa e le trecce giù per le spalle, la maltese incappucciata nella faldetta nera, l’ebrea vestita dell’antichissimo costume della Giudea, la negra ravvolta in uno scialle variopinto del Cairo, l’armena di Trebisonda tutta nera e velata come un’apparizione funebre, si trovano qualche volta in una sola fila, come se vi si fossero messe apposta, per prender risalto l’una dall’altra. È un mosaico cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. È bello tener gli occhi fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbucce gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell’Asia minore, pantofole ricamate d’oro, alpargatas alla spagnola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che mentre se ne guarda una, se ne intravvedono cento. A non badarci bene, c’è da essere rovesciati a ogni passo. Ora è un portatore d’acqua con un otre colossale sul dorso, ora una signora russa a cavallo, ora un drappello di soldati imperiali, vestiti alla zuava, che par che vadano all’assalto, ora una squadra di facchini armeni che passano reggendo sulle spalle, a due a due, delle lunghissime sbarre, a cui sono sospese delle balle smisurate di mercanzia; ora delle frotte di turchi che si lanciano a destra e a sinistra del ponte per imbarcarsi sui piroscafi. È uno scalpiccio, un fruscio, un sonare di voci esotiche, di note gutturali, d’aspirazioni, d’interiezioni incomprensibili, in mezzo a cui le poche parole francesi o italiane che arrivano agli orecchi di tratto in tratto, fanno l’effetto di punti luminosi in una tenebra fitta. Le figure che dan più nell’occhio in quella folla, sono i Circassi, che vanno per lo più a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d’uomini barbuti, dalla faccia terribile, che portano un grosso berrettone di pelo alla foggia dell’antica guardia napoleonica, un lungo caffettano nero, un pugnale alla cintura e un cartucciere d’argento sul petto; vere figure di briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli per vendere una figliola o una sorella, e debba avere le mani intrise di sangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmatica bizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d’oro; i bulgari, vestiti d’un saio grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; i giorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e la tunica stretta alla vita da un cerchio metallico; i greci dell’arcipelago coperti da capo a piedi di ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti. La folla di tanto in tanto radeggia un poco; ma subito s’avanzano altre frotte serrate, ondate di papaline rosse e di turbanti bianchi, in mezzo ai quali spuntano cappelli cilindrici, ombrelle e pettinature piramidali di signore europee, che par che galleggino portate via da quel torrente musulmano. C’è da stupire soltanto a notare la varietà della gente di religione. Qui luccica il cocuzzolo d’un padre cappuccino, là torreggia il turbante alla giannizzera d’un ulema, più in là ondeggia il velo nero d’un prete armeno. Passano degli iman con la tunica bianca, delle monache stimmatine, dei cappellani dell’esercito turco, vestiti di verde, con la sciabola al fianco, dei frati domenicani, dei pellegrini reduci dalla Mecca con un talismano appeso al collo, dei gesuiti, dei dervis, – e questo è strano davvero – dei dervis che nelle moschee si straziano le carni in espiazione dei peccati, e passando il ponte si riparano dal sole coll’ombrellino. A starci bene attenti, seguono in quella confusione mille piccoli accidenti amenissimi. È un eunuco che mostra il bianco dell’occhio a un zerbinotto cristiano, il quale ha guardato troppo curiosamente dentro alla carrozza della sua padrona; è una cocotte francese, vestita coll’ultimo figurino, che pedina il figliuolo d’un pascià ingioiellato e inguantato; è una signora di Stambul che finge di aggiustarsi il velo per sbirciar lo strascico d’una signora di Pera; è un sergente di cavalleria in uniforme di gala, che si ferma nel bel mezzo del ponte, si stringe il naso con due dita e slancia nello spazio un guai a chi tocca, da mettere i brividi; è un ciurmadore che, preso un soldo da un povero diavolo, gli fa sul viso un gesto cabalistico, che lo deve guarire del mal d’occhi; è una famiglia di viaggiatori grandi e piccini, arrivata quel giorno stesso, che s’è smarrita in mezzo a una turba di canaglia asiatica, e la madre cerca i bimbi che strillano, e gli uomini si fanno largo a spintoni. I cammelli, i cavalli, le portantine, le carrozze, i buoi, le carrette, le botti rotolate, gli asini sanguinolenti, i cani spelacchiati, formano delle lunghe file, che dividono per mezzo la folla. Qualche volta passa un grosso pascià di tre code, sdraiato in una carrozza splendida, seguito a piedi dal suo portapipa, dalla sua guardia e da un nero, e allora tutti i turchi salutano toccandosi la fronte e il petto, e le mendicanti musulmane, orribili megere, col volto imbacuccato e il seno nudo, si slanciano agli sportelli chiedendo l’elemosina. Gli eunuchi fuor di servizio, passano a due, a tre, a cinque insieme, con la sigaretta in bocca; e si riconoscono alla molle corpulenza, alle lunghe braccia, ai grandi abiti neri. Le belle bambine turche, vestite da maschietti, con calzoncini verdi e panciottini rosati o gialli, corrono e saltellano con un’agilità felina, facendosi largo con le piccole mani tinte di color di porpora. I lustrascarpe con la cassetta dorata, i barbieri ambulanti con la seggiola e la catinella in mano, i venditori d’acqua e di dolci, fendono la calca in tutte le direzioni, urlando in greco ed in turco. A ogni passo si vede luccicare una divisa militare: ufficiali in fez e calzoni scarlatti, col petto costellato di decorazioni; palafrenieri del serraglio, che paiono generali d’armata; gendarmi con un arsenale alla cintura; zeibek, o soldati liberi, con quegli enormi calzoni a borsa deretana, che danno loro il profilo della venere ottentotta; guardie imperiali, con un lungo pennacchio bianco sul casco e il petto coperto di galloni; guardie di città che girano colle manette fra le mani; guardie di città a Costantinopoli! È come chi dicesse: gente incaricata di tener a segno l’oceano Atlantico. È bizzarro il contrasto di tutto quell’oro e di tutti quei cenci, della gente sovraccarica di roba, che paion bazar ambulanti, e della gente quasi nuda. Il solo spettacolo della nudità è una meraviglia. Si vedono tutte le sfumature della pelle umana, dal bianco latteo dell’Albania al nero corvino dell’Africa centrale e al nero azzurrognolo del Darfur; dei petti che, a picchiarli, par che debbano risonare come vasi di bronzo, o sgretolarsi come forme di terra secca; schiene oleose, pietrose, lignee, irsute come dorsi di cinghiale; braccia rabescate di rosso e di blu, con disegni di rami e di fiori, e iscrizioni del Corano e immagini grossolane di battelli, e di cuori attraversati da frecce. Ma in una prima passeggiata, per il ponte, non c’è né tempo né modo d’osservare tutti questi particolari. Mentre guardate i rabeschi d’un braccio, il vostro cicerone vi avverte che è passato un serbo, un montenegrino, un valacco, un cosacco dell’Ukrania, un cosacco del Don, un egiziano, un tunisino, un principe d’Imerezia. C’è appena tempo a tener d’occhio le nazioni. Pare che Costantinopoli sia sempre quella che fu: la capitale di tre continenti e la regina di venti vicereami. Ma nemmeno quest’idea risponde alla grandezza di quello spettacolo, e si fantastica un incrociamento d’emigrazioni, prodotto da qualche enorme cataclisma che abbia sconvolto l’antico continente. Un occhio esperto discerne ancora in quel mare magno i volti e i costumi della Caramania e dell’Anatolia, quei di Cipro e di Candia, quei di Damasco e di Gerusalemme, il druso, il curdo, il maronita, il talemano, il pumacco, il croato, ed altre innumerevoli varietà dell’innumerevole confederazione d’anarchie che si stende dal Nilo al Danubio e dall’Eufrate all’Adriatico. Chi cerca il bello e chi cerca l’orrido, trovano qui egualmente superati i loro più audaci desideri: Raffaello rimarrebbe estatico e il Rembrandt si caccerebbe le mani nei capelli. La più pura bellezza della Grecia e delle razze caucasee, è mescolata coi nasi camusi e colle teste schiacciate; vi passano accanto figure di regine e facce di furie; visi imbellettati e visi sformati dai morbi e dalle ferite, piedoni colossali e piedini circassi lunghi come la mano, facchini giganteschi, enormi pinguedini di turchi, e neri stecchiti come scheletri, larve d’uomini che mettono pietà e raccapriccio; tutti gli aspetti più strani in cui si possano presentare al mondo la vita ascetica, l’abuso della voluttà, le fatiche estreme, l’opulenza che impera e la miseria che muore. E nondimeno la varietà di vestimenti è senza confronto più meravigliosa della varietà delle persone. Chi sente i colori, ci ha da ammattire. Non ci son due persone vestite eguali. Sono scialli attorcigliati intorno al capo, bendature di selvaggi, corone di cenci, camicie e sottovesti rigate e quadrettate come il vestito d’arlecchino, cinture irte di coltellacci che salgono dai fianchi alle ascelle, calzoni alla mammalucca, mezze mutande, gonnellini, toghe, lenzuoli che strascicano, abiti ornati d’ermellino, panciotti che sembrano corazze d’oro, maniche a gozzo e a sgonfietti, vestiti monacali e spudorati, uomini abbigliati da donna, donne che sembran uomini, pezzenti che sembran principi, un’eleganza di stracci, una follia di colori, una profusione di frange, di gale, di frappe, di svolazzi, d’ornamenti teatrali e bambineschi, che dà l’immagine d’un veglione dentro a un immenso manicomio, in cui abbiano vuotate le loro casse tutti i rigattieri dell’universo. Sopra il mormorio sordo, che esce da questa moltitudine, si sentono gli strilli acuti dei ragazzi greci, carichi di giornali d’ogni lingua; le grida stentoree dei facchini, le risa sgangherate delle donne turche, le voci infantili degli eunuchi, i trilli in falsetto dei ciechi che cantano versetti del Corano, il rumor cupo del ponte che ondeggia, i fischi e le campanelle di cento piroscafi, di cui il vento abbatte tratto tratto il fumo denso sopra la folla, in modo che per qualche minuto non si vede più nulla. Questa mascherata di popoli scende nei vaporini che partono ogni momento per Scutari, per il villaggio del Bosforo e per i sobborghi del Corno d’oro; si spande per Stambul, nei bazar, nelle moschee, nei borghi di Fanar e di Balata, fino ai quartieri più lontani del mar di Marmara; irrompe sulla riva franca, a destra verso i palazzi del Sultano, a sinistra verso gli alti quartieri di Pera, di dove poi ricasca sul ponte per le innumerevoli stradicciole che serpeggiano lungo i fianchi delle colline; e allaccia così l’Asia e l’Europa, dieci città e cento sobborghi, in una rete di faccende, d’intrighi e di misteri, dinanzi a cui l’immaginazione si sgomenta. Pare che questo spettacolo debba mettere allegrezza. E non è vero. Passata la prima meraviglia, i colori festosi si sbiadiscono: non è più una grande processione carnevalesca che ci passa dinanzi; è l’umanità intera che sfila con tutte le sue miserie, con tutte le sue follie, coll’infinita discordia delle sue credenze e delle sue leggi; è un pellegrinaggio di popoli decaduti e di razze avvilite; una immensità di sventure da soccorrere, di vergogne da lavare, di catene da rompere; un cumulo di tremendi problemi scritti a caratteri di sangue, e che non si scioglieranno che con torrenti di sangue; e questo immenso disordine rattrista. E poi il senso della curiosità è prima rintuzzato che soddisfatto da questa sterminata varietà di cose strane. Che misteriosi rivolgimenti accadono nell’anima umana! Non era passato un quarto d’ora dal mio arrivo sul ponte, che stavo appoggiato alle spallette, rabescando sbadatamente un pezzo di trave con la matita, e dicendo a me stesso, tra uno sbadiglio e l’altro, che c’è qualchecosa di vero in quella famosa sentenza della Stael, che il viaggiare è il più triste dei piaceri.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.