Treviso, Museo Civico Luigi Bailo: JUTI RAVENNA. Un artista tra Venezia e Treviso

Juti Ravenna, Piazza dei Signori verso piazza Indipendenza
(Piazza dei Signori sotto la pioggia), 1935.

JUTI RAVENNA (1897 – 1972)
Un artista tra Venezia e Treviso

Treviso, Museo Civico Luigi Bailo

13 ottobre 2023 – 4 febbraio 2024

Il 29 aprile del 1972 moriva a Treviso Juti (Luigi) Ravenna, artista eccellente e attento critico d’arte. A oltre cinquant’anni della sua scomparsa, i Musei Civici di Treviso gli dedicano una retrospettiva al Museo Bailo, la cui pinacoteca conserva un suo importante nucleo di opere.
La mostra, curata da Eugenio Manzato ed Eleonora Drago, presenta, attraverso un percorso cronologico, le varie fasi dell’attività e della vita dell’artista, con oltre 100 opere pittoriche, disegni, bozzetti e acquerelli, ma anche con documenti e foto d’epoca e oggetti a lui appartenuti, tutti provenienti da collezioni private per lo più locali e ovviamente con la rinnovata esposizione al pubblico delle opere dell’artista già di proprietà civica.

Ravenna nasce a Spadacenta, frazione del comune di Annone Veneto, nel 1897. Già da giovanissimo manifesta una forte propensione per la pittura, espressa in una serie di disegni di impronta classica: una passione che neppure la chiamata al fronte, nel primo conflitto mondiale, riuscì ad attenuare. Come testimoniano gli album di disegni realizzati in presa diretta sulle linee di combattimento, disegni che sono in parte confluiti nel libro autobiografico Una vita per la pittura (1969, curata da Giuseppe Mesirca con 29 suoi disegni) e nel Diario di guerra del granatiere Giuriati Giuseppe, con prefazione di Giovanni Comisso. Grazie ad una licenza dal fronte raggiunge Firenze, e qui entra in contatto con la pittura e gli scritti di Ardengo Soffici e scopre l’impressionismo francese. Dal 1919 è nuovamente in Veneto per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Venezia, e già negli anni successivi trasferisce il suo studio a Ca’ Pesaro, cominciando ad esporre. Nel capoluogo lagunare conosce Gino Rossi e Pio Semeghini; con Seibezzi e altri condivide a lungo l’amore per l’isola di Burano e per le vedute tra acqua e cielo.

La prima personale, nel 1924 a Cà Pesaro, è curata a Nino Barbantini. Seguono partecipazioni alla Quadriennale e a diverse mostre di rilievo in Italia e all’estero. La prima sua Biennale è del 1928, presenza puntualmente ripetuta sino al secondo conflitto, per riprendere nel 1949 e ancora nel ’50 e nel ’72. Conosce e frequenta, nel 1928, Filippo de Pisis, che al rientro da Parigi fu suo ospite a Venezia.

L’attività pittorica di Ravenna viene avvicinata alla generazione di giovani artisti gravitanti su Venezia, desiderosi di uscire dagli schemi di un accademismo ancora imperante per avvicinarsi al nuovo che stava avanzando in Europa. I suoi paesaggi veneziani di questi anni, così come successivamente quelli trevigiani, raccontano i luoghi, le luci, le atmosfere attingendo al registro poetico più che a quello documentario.

Nel ’51, con Virgilio Guidi vince il Premio Burano, ma già dal ’47 aveva scelto di abbandonare la laguna per approdare a Treviso, città che frequentava sin dagli anni ’30 e dove contava molti amici.

Da lì in poi, la sua pittura vede una svolta: come segnalato da Mesirca, “Il trasferimento a Treviso, a contatto con una natura esuberante, ricca di alberi e fiumi, fece subentrare in lui una prepotente e calda sensualità: dopo i prediletti grigi, rosa e violetti stesi sulla tela in finissimi accordi nel periodo veneziano, ecco i colori vivi e splendenti, in liberi e arditi accostamenti. Non si trattava però di un orgiastico e confuso abbandono, ma di una felice esplosione contenuta entro i limiti del più rigoroso controllo.”

Frequenti sono i suoi soggiorni tra i colli e la campagna veneta, dove realizza scorci e vedute di paesaggi, ma anche visioni del Sile, nei quali i colori divengono sempre più vividi e potenti, distaccandosi dalla realtà, in parallelo con l’allontanamento dell’artista dai movimenti militanti dell’arte d’avanguardia, che si sviluppavano a Venezia. Negli inverni, dalla fine degli anni ’50 spesso si rifugia in Liguria; inoltre, realizza l’originale serie delle “Boutiques”, eseguite nell’arco di quasi un quarantennio.

Artista ma anche critico. In questa veste, oltre che con suoi disegni, interviene su diverse riviste: nel 1943, con Egidio Bonfante, pubblica “50 disegni di Picasso” e, sempre con Bonfante, nel ’52, “Arte Cubista”.

Juti Ravenna, Autoritratto in costume da Pierrot, 1938
Musei Civici di Treviso

Il percorso di mostra, ripercorrendo i momenti e i luoghi della vita e dell’attività di Juti Ravenna, è articolato in dieci sezioni, e presenta dipinti, acquerelli e disegni, ma anche una ricca e preziosa selezione di documenti, scritti e fotografie dell’epoca. Si avvale della partecipazione di generosi prestiti da collezionisti privati e discendenti, amici e conoscenti di Ravenna, con pezzi per lo più poco noti e talvolta inediti, oltre ovviamente alle opere già di proprietà dei Musei Civici di Treviso giunte in collezione nel corso dei decenni.

L’esposizione parte dal luogo di nascita in cui ha ricevuto la prima formazione, iniziata fin dall’adolescenza con la frequenza della Scuola di Arti e Mestieri di Motta di Livenza, dove ha avuto tra i suoi insegnanti Antonio Beni, architetto e pittore, e dove compie i primi esperimenti nella pittura ritraendo i familiari e la casa natale. Oltre alle prime prove pittoriche e a disegno – tra le novità di questa mostra – si passa quindi alle sue residenze veneziane: lo studio a Ca’ Pesaro tra il ’23 e il ’28, quello a Palazzo Carminati dal ’28 al ’47; sono di questo periodo, cruciale nella vita e nell’attività dell’artista, opere fondamentali come Il discepolo l’Autoritratto con la stufa, nonché nature morte e vedute di Venezia e di Burano, composizioni strutturate e dal solido disegno con le quali Ravenna si avvicina al novecentismo. I rapporti con Treviso iniziano ben prima del 1947, quando vi si trasferisce, e ve n’è testimonianza in alcuni acquarelli del 1942 giunti al Museo col lascito Luccini; personaggi e vedute trevigiane costituiscono, insieme alle “boutique” e a qualche paesaggio ligure, l’ultima parte della mostra, che termina con una ricostruzione dello studio d’artista, ambiente che ha sempre segnato le sue fasi biografiche, grazie anche all’esposizione di suoi strumenti di lavoro.

Attraverso un viaggio che inizia dalle primissime prove eseguite dal giovane Juti prima del trasferimento a Venezia, vengono evidenziate le diverse e molteplici fasi artistiche e biografiche dell’autore, scandite da incontri e stimoli intellettuali, culturali e sociali, testimoniati dai ritratti a penna e pennello; ma sempre mantenendo viva un’attenzione vera e profonda alla propria interiorità, che in mostra emerge dai preziosi autoritratti, posti a marcare le fasi di una personale idea di arte e vita unica e irripetibile.

«La retrospettiva dedicata a Juti Ravenna rappresenta un’altra importante e preziosa occasione di valorizzazione del nostro patrimonio artistico», afferma il sindaco Mario Conte. «Grazie a prestiti privati e alla collezione dei nostri Musei, ci sarà infatti la possibilità di ammirare le opere del pittore che proprio a Treviso, complici le meraviglie paesaggistiche che contraddistinguono la nostra Città e il suo territorio, visse un periodo di particolare vivacità artistica».  

La mostra sarà accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo che raccoglierà, oltre all’elenco delle opere esposte con relative foto, una serie di contributi che mirano ad approfondire aspetti meno noti alla letteratura sulla figura di Juti Ravenna, come gli esordi giovanili, i primi anni veneziani e il lungo periodo di attività a Treviso (Eugenio Manzato ed Eleonora Drago).

Inoltre, saranno presenti alcuni saggi con focus tematici: la produzione a tema sacro (Paolo Barbisan),

rapporti quotidiani e privati con amici e intellettuali come Giovanni Comisso (Mario Sutor) e altri artisti (Daniela Chinaglia).


MUSEO LUIGI BAILO
Borgo Cavour, 24 Treviso
prenotazioni e visite guidate: prenotazioni@museitreviso.it
T 0422 658951
www.museitreviso.it
www.museicivicitreviso.it
 
Ufficio Stampa: Studio ESSECI, Sergio Campagnolo +39 049 663499
Ref. Roberta Barbaro – roberta@studioesseci.net

Bologna, nella Project Room del MAMbo Museo: Muna Mussie

Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Project Room
Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
,
A cura di Francesca Verga con Archive Ensemble
Periodo di apertura: fino al 10 settembre 2023
Ingresso con biglietto museo: intero € 6 | ridotto € 4 | ridotto speciale € 2 giovani 19-25 anni | gratuito possessori Card Cultura

La Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna conferma la propria vocazione alla ricostruzione, al racconto e alla valorizzazione delle esperienze culturali e artistiche che hanno avuto luogo a Bologna e in Emilia-Romagna accogliendo la mostra di Muna Mussie (Eritrea, 1978) Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna.

Il progetto, a cura di Francesca Verga con Archive Ensemble, riattiva la memoria personale dell’artista e l’archivio storico e iconografico dei Congressi e Festival Eritrei che si sono tenuti a Bologna ininterrottamente dal 1972 al 1991. Frequentati dalle comunità diasporiche eritree provenienti da tutto il mondo, i Festival si sono collocati in prima linea per supportare la lotta armata inaugurata nel 1961 per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. A sottolineare l’importanza che queste occasioni di incontro hanno avuto, al termine della guerra, il neo governo eritreo, proclamato nel 1993 dal presidente Isaias Afewerki, ha voluto dedicare ad Asmara – la capitale dell’Eritrea – una strada intitolata Bologna St., come riconoscimento permanente del ruolo fondamentale che la città di Bologna ha avuto nel raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea.
A partire dal legame che unisce l’Eritrea, il paese nativo dell’artista, e Bologna, la sua città adottiva, Muna Mussie consegna una narrazione e una mappatura tracciata dai Congressi e Festival eritrei, attraverso la consultazione di archivi pubblici e privati raccolti nel territorio bolognese. I materiali di archivio vengono messi in dialogo dall’artista con alcune opere che hanno accompagnato le tappe precedenti della ricerca e altre inedite.

Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room
del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna si realizza grazie al sostegno dell’Italian Council (XI edizione, 2022), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nell’ambito del programma è prevista la donazione al MAMbo di un’opera che verrà completata alla fine del processo di ricerca di Muna Mussie.

L’esposizione al museo bolognese nasce inoltre dal dialogo e dal confronto con Archive Kabinett e fa seguito alla mostra personale di Muna Mussie, intitolata Bologna St. 173. Il sole d’agosto, in alto nel cielo, batte forte (Milano 2021), curata da Zasha Colah e Chiara Figone.


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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

9- La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

19


Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire, di studiare molto le tre nazioni, armena, greca ed ebrea, che formano la popolazione dei rajà; studio, d’altra parte, assai lungo, poiché se ognuno di quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria, la vita esteriore di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale va ora perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde presentano tutti e tre la difficoltà d’osservazione che presenterebbe un quadro mobile e cangiante. Gli armeni, in special modo, «cristiani di spirito e di fede, e musulmani asiatici di nascita e di carne», non sono soltanto difficili a studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poiché quella parte di loro che non ha ancora preso il vestiario europeo, è vestita alla turca, salvo piccolissime differenze; e non usa quasi più affatto l’antico berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali, il segno distintivo della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell’aspetto. Sono per lo più alti di statura, robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d’andatura e di modi gravi, e mostrano nel viso le due qualità proprie della loro natura: lo spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui sono meravigliosamente atti al commercio, e quella placidità, che altri vuol chiamare pieghevolezza servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall’Ungheria alla China, e a rendersi accetti particolarmente ai turchi, dei quali si cattivarono la fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non hanno nè fuori nè dentro nulla di bellicoso e d’eroico. Tali, forse, non erano anticamente nella regione asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano tuttora assai diversi i loro fratelli che l’abitano; ma quei che furono trapiantati di qua dal Bosforo, sono veramente un popolo mansueto e prudente, modesto nella vita, non inteso ad altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si dice, d’ogni altro popolo di Costantinopoli. I turchi li chiamano i cammelli dell’impero e i franchi dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in gran parte giustificati dal fatto, poiché in grazia appunto della loro forza fisica e della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a un buon numero d’architetti, d’ingegneri, di medici, d’artefici ingegnosi e pazienti, essi forniscono a Costantinopoli la maggior parte dei facchini e dei banchieri: facchini che portano pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s’accorgerebbe che v’è un popolo armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c’è che un occhio molto esperto che le possa riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch’esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d’alta statura e di forme matronali, che coronate d’un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte d’aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell’anima che brilla sul volto della donna greca.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.