Bologna, Palazzo d’Accursio: un omaggio dedicato a Pirro Cuniberti, grande artista bolognese

L’installazione con la finestra dedicata a Pirro Cuniberti
in Sala Farnese di Palazzo d’Accursio, Bologna
Foto Giorgio Bianchi – Comune di Bologna

Cosa c’è in Comune tra Pirro e questa finestra?
Per i 100 anni appena nati di Pirro Cuniberti


Inaugurazione della veduta sulla città

Domenica 10 settembre 2023 ore 18.00
Palazzo d’Accursio | Cappella Farnese e Sala Farnese

Piazza Maggiore 6, Bologna

In occasione del centenario dalla nascita di Pier Achille “Pirro” Cuniberti, il Comune di Bologna, insieme al Settore Musei Civici Bologna e all’Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”, promuove un omaggio dedicato alla figura del grande artista bolognese con una serie di iniziative trasversali intorno alla sua opera e alla sua pratica.
Le celebrazioni per i “100 anni appena nati” di Pirro Cuniberti si articoleranno in un calendario di esposizioni/installazioni, eventi e iniziative diffuse in città, in cui confluiranno numerose progettualità che proseguiranno nel corso del 2024. Un programma di “incursioni d’arte”, cittadine e non solo, per raccontare le vite interminate e le tante opere ancora sconosciute del pittore e disegnatore, artista tra i più originali nell’ambito di una “linea fantastica” dell’arte italiana del secondo Novecento.

Allievo di Giorgio Morandi e Giovanni Romagnoli all’Accademia di Belle Arti di Bologna, in seguito folgorato da Paul Klee per la sua concezione della forma come infinita genesi creativa, il “maestro dei segni” Pirro Cuniberti è stato un artista poliedrico dall’identità multiforme, capace di misurarsi con assoluta naturalezza con differenti modalità espressive – dalla grafica, alla pittura, all’illustrazione – e dare raffigurazione a dimensioni interiori e universi immaginifici liberi da vincoli mimetici. La sua prolifica avventura inventiva, suggellata da una carriera lunga oltre mezzo secolo, non traccia uno sviluppo lineare di ricerca quanto piuttosto un volo al di sopra delle varie correnti artistiche, che ha attraversato con la leggerezza della poesia profonda.

Mescolando l’istinto al disegno geometrico, il rigore alla fantasia assoluta, Cuniberti ha viaggiato molto, ma solo con il pensiero, ed è rimasto sempre saldamente ancorato all’ombra antica delle Due Torri. Di se stesso diceva: “Sono un provinciale. Ho sempre amato Bologna e da qui non sono mai voluto andare via. Neanche negli anni in cui lavoravo a Milano e a Roma, quando avrei potuto trasferirmi. Per niente al mondo avrei lasciato la mia città”. E per Bologna, con grande generosità, l’artista ha immaginato e creato segni per alcuni momenti importanti della vita culturale e sociale della città che rimangono indelebili nella memoria collettiva. Oltre al Vecchione d’artista e al manifesto celebrativo per il compleanno della Biblioteca Salaborsa, due sue opere rappresentano in modo particolare il rapporto significativo avuto con la nostra città: il logotipo creato per “Bologna 2000 Capitale europea della Cultura” e il manifesto del tredicesimo anniversario della strage alla stazione, dove l’eleganza e la semplicità di ottantacinque fiori in volo verso il cielo racchiudono il suo senso di appartenenza alla sua amata Bologna. Da ricordare, inoltre, la realizzazione della Magna Carta per l’Università di Bologna in occasione del nono centenario.

Conferenza stampa di presentazione della finestra dedicata a Pirro Cuniberti in Sala Farnese di Palazzo d’Accursio, Bologna
Da sinistra: Leonardo Bergonzoni, Alessandro Bergonzoni, Francesca Lazzari, Giovanni Verde, Barbara Cuniberti, Lorenzo Balbi, Elena Di Gioia, Eva Degl’Innocenti, Flaminio Gualdoni
Foto Giorgio Bianchi – Comune di Bologna

L’avvio del progetto speciale è simbolicamente previsto domenica 10 settembre, proprio nel giorno in cui l’artista avrebbe compiuto 100 anni, alle ore 18.00 a Palazzo d’Accursio, con l’intitolazione di una delle finestre che da Sala Farnese affacciano su Piazza Maggiore.
La dedica è preceduta da un’inaugurazione ufficiale nell’adiacente Cappella Farnese, in cui il pubblico potrà scoprire la genesi dell’originale iniziativa. Interverranno: Matteo Lepore (sindaco di Bologna), Elena Di Gioia (delegata alla Cultura di Bologna e Città metropolitana), Eva Degl’Innocenti (direttrice Settore Musei Civici Bologna), Lorenzo Balbi (direttore MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna | Settore Musei Civici Bologna), Barbara Cuniberti (figlia dell’artista e presidente Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”), Leonardo Bergonzoni (segretario economo Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”), Flaminio Gualdoni (critico d’arte) e Alessandro Bergonzoni (artista e vicepresidente Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”).

Perché dedicare proprio una finestra? Barbara Cuniberti racconta di essersi ispirata ad alcune parole di suo padre: “Il segno è indispensabile alla mia vita come l’aria”. Ecco allora l’idea della finestra, da lei voluta, frutto di una ricerca condivisa con Alessandro Bergonzoni e il contributo di uno dei nipoti di Pirro, Leon Sal. L’idea di Barbara è stata subito raccolta e condivisa con entusiasmo da Elena Di Gioia e dall’Amministrazione Comunale, con il supporto e il coinvolgimento di Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo. Un segno come intitolazione e omaggio della città al grande artista che diventa, citando uno dei tanti pensieri di Bergonzoni sul progetto della compagna,“vera e propria cornice di un quadro che cambia di continuo luci, colori e aria”.
La veduta cunibertiana di Sala Farnese è “autografata” tramite incisione su vetro con il titolo di un disegno dell’artista – Anche le ali degli angeli si rompono – che racconta ciò che lui stesso, con le mani della matita, ha sempre percepito di Bologna: “una piazza di sguardi rivolti verso il cielo, visti con l’occhio discreto di una lente che scruta l’ombelico della città”, come dice Alessandro Bergonzoni.
L’incisione e l’allestimento sono realizzati dagli scenografi Giovanni Verde e Francesca Lazzari.Grafica e video sono a cura di Francesco Schinaia.

Come ricorda la moglie dell’artista Laura Baisi detta Lalla, presidente onorario dell’Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”: “Ho condiviso e archiviato tutti i suoi lavori per sogno e per segni messi in riga, ma senza mai una volta archiviare la nostra vita di innamorati”. Pirro ha fino ad oggi fatto, dello stare un po’ in ombra, la sua luce: Bologna la riaccenderà per svelare i segreti del suo estro, volato dentro ad una finestra, silenzioso, come uno degli alianti che tanto adorava, attraverso la trasparenza di un foglio di vetro scritto. Tutti i visitatori della Sala Farnese potranno “leggere”, al volo, Piazza Maggiore da quell’affaccio dedicato. Che non si sporge mai nel vuoto.

Spiega Elena Di Gioia, delegata alla Cultura di Bologna e Città metropolitana: “Dare voce agli artisti e alle artiste è una delle linee della nostra politica culturale e una scelta strategica di questa amministrazione che porto avanti con convinzione sia creando sempre più occasioni pubbliche di presenza nelle iniziative in città sia aumentando i segni della presenza di artisti e artiste che hanno attraversato Bologna depositando segni permanenti anche nello spazio pubblico. Le intitolazioni culturali a artisti e artiste nello spazio pubblico di giardini, parchi, strade che stiamo portando avanti in questo periodo sono uno di questi aspetti e rendono presente e attiva la memoria culturale e creativa dei cittadini e delle cittadine che incrociano sempre più oggi nella trama dei propri percorsi nomi che rimandano a artisti e artiste e alle loro opere. In questo percorso anche il palazzo di città, Palazzo d’Accursio, diventa luogo sempre più attraversato dalle opere e riferimenti di artisti (come la presenza della poesia di Patrizia Cavalli in Sala del Consiglio oggi affianco alle Sibille di Elisabetta Sirani e alle prossime azioni)Per i cento anni ‘appena nati’ di Pirro Cuniberti abbiamo deciso di non ridurre la celebrazione a un solo luogo o a una sola opera ma, come sicuramente come lui stesso avrebbe preferito, a una fitta trama di presenze creative che incontrano chi si muove nella nostra città. La dedica di uno sguardo autografato sulla città è un invito originale a chi visita Palazzo d’Accursio a soffermarsi su Pirro Cuniberti e a condividere con lui uno sguardo che vola sulla città. Questa dedica è il primo segno di una pluralità di segni che rimandano a Pirro Cuniberti in città che proporremo come volontà di renderlo presente e vivo. ‘fare un giretto’, per riprendere le sue parole, con lui in città con modalità inedite e originali che prenderanno corpo nei prossimi mesi e che fanno festa alla grande opera di Pirro e all’indissolubile legame con la nostra città”.

Eva Degl’Innocenti, direttrice Settore Musei Civici Bologna, sottolinea: “La dedica della veduta sulla città rappresenta l’inizio delle celebrazioni dei ‘100 anni appena nati’ del grande artista Pirro Cuniberti, poeta del segno, una delle più grandi figure dell’arte italiana”.

Biografia di Pier Achille “Pirro” Cuniberti

Pier Achille Cuniberti, detto Pirro, nasce a Padulle di Sala Bolognese (BO) il 10 settembre 1923 da Zaira Monari ed Emilio Cuniberti, rappresentante di masonite, materiale che avrà una grande importanza per la futura attività artistica di Pirro.

Sono i genitori ad incoraggiarlo nell’attività del disegno sin dall’infanzia e all’età di dieci anni viene premiato agli Argonali Nazionali della Cultura e dell’Arte organizzati dall’Opera Nazionale Balilla.

Nel 1939 si iscrive alla Regia Scuola per le Industrie Artistiche di Bologna, dove segue i corsi di disegno di Ferdinando e Ruggero Rossi che, come dichiarò Cuniberti: “Mi hanno insegnato tutto quello che mi è veramente servito”.

Nel 1943 viene chiamato alle armi, ma trascorsi i tetri anni della seconda guerra mondiale Pier Achille prosegue la sua strada nell’apprendimento delle arti e nel 1948 si diploma all’Accademia delle Belle Arti dove ha avuto come insegnanti Giorgio Morandi e Giovanni Romagnoli.

Dal 1945 inizia a lavorare come grafico pubblicitario per Ducati, Volkswagen ed altri studi.
Nel 1948 Cuniberti visita La Biennale di Venezia e scopre Paul Klee, che costituirà per tutta la sua carriera un grande punto di riferimento, tanto da essere definito dall’artista emiliano un vero e proprio padre spirituale.

Nel 1949 segue il corso di Virgilio Guidi e realizza molti disegni, pastelli, tempere su carta, piccole tele a olio, ma di questa fase iniziale distruggerà tutto.

Nel 1952 inizia ad utilizzare la penna a sfera con la quale realizza disegni, sulla carta da macchina, che approdano all’astrazione. Cuniberti ha già dato avvio ad una peculiare formula disegnativa – cui per buona parte della carriera resterà legata la sua immagine – innestata su una trasfigurazione sottilmente astraente e micrografica dalla realtà. Nella sua pittura si intuisce il vibrante, retrattile significato del segno.

È il 1953 quando Cuniberti viene chiamato a ricoprire la cattedra di Disegno Professionale nella sezione di Decorazione Pittorica, posizione che definisce il suo ruolo di insegnante condotto in parallelo alla professione di artista. Il disegno rappresenta il filo conduttore di tutta la sua opera: attraverso tensioni e sottili vibrazioni grafiche, Cuniberti crea una lingua poetica unica nell’ambito della cosiddetta “linea fantastica” della pittura italiana del dopoguerra, una espressione attraverso cui trasmettere una visione del mondo attenta ai temi del quotidiano e dell’attualità.

Seguono anni di grande sperimentazione condotta tra disegni, tempere su carta, pastelli, piccole tele a olio e incontri con altri personaggi del panorama artistico e culturale come Vasco Bendini, Sergio Romiti e Sergio Vacchi. In questo periodo Cuniberti inizia inoltre a realizzare i primi disegni a penna tendenti all’astrazione, realizzati su carta da macchina con la nuova penna a sfera, che diviene presto un medium privilegiato dall’artista: “La biro è un mezzo straordinario che consente di disegnare il grosso e il sottile e permette di esprimermi con grande leggerezza”.

Nel 1957 viene presentato da Francesco Arcangeli al Circolo Culturale di Bologna, dove tiene la sua prima mostra personale. Le prime mostre portano i primi riconoscimenti: dopo avere partecipato nel 1965 alla IX Quadriennale di Roma, viene premiato l’anno successivo al XII Premio Spoleto con il suo quadro Tentativo di dialogo con un ufficiale di frontiera. Successivamente presenta altre opere alla X e alla XI Quadriennale di Roma e inizia a collaborare come grafico con Il Resto del Carlino.

Il passaggio agli anni Settanta è vissuto nella sperimentazione di formati maggiori, generalmente ripudiati dall’artista sin dall’inizio della carriera. La predisposizione per i generi minimi e per le tecniche grafiche miste (insieme alla preferenza per il segno ingolfato dei pastelli) ritornano nella serie delle Arche, immagini cui affidare, in una mitica trasfigurazione lirica, la propria sopravvivenza e quella della pittura. All’attività pittorica unisce quella di grafico, decoratore, ceramista, illustratore. Accanto alle tematiche consuete il minimalismo cunibertiano continua ad esprimersi, fin dagli anni Sessanta, nelle parallele figurazioni di nudo, silhouettes diafane ed incorporee o grovigli di materia pulsante.

Nel 1979 Cuniberti sostituisce alla tela delle tavole di masonite – materiale ottenuto da laminato di legno pressato – preparate con base acrilica e dipinte con colori acrilici diluiti poi con l’intervento di pastelli e grafite.

È del 1984 la sua prima antologica, allestita alla Pinacoteca di Bologna e seguita sette anni dopo da un’altra antologica curata da Claudio Cerritelli e Dario Trento. Gli ultimi anni sono scanditi da altre antologiche e da collaborazioni artistiche, come quella con Giosetta Fioroni con la quale realizza nel 1992 un disegno a quattro mani per il libro Mano Doble. Le ultime mostre di Cuniberti sono ospitate al Museo Archeologico di Bologna (2003) e alla ESSO Gallery di New York (2008).

L’artista muore a Bologna il 4 marzo 2016. Tra mostre personali e collettive, il suo lavoro viene esposto in importanti sedi istituzionali, come la Galleria d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, a Ferrara, il Musée d´Art Moderne de la Ville de Paris e il Centre George Pompidou a Parigi, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Si spegne a Bologna il 5 marzo 2016.

Opere di Cuniberti sono conservate nella Pinacoteca Civica di Pieve di Cento, al Museo d’Arte Moderna di Bologna, alla Galleria Civica di Modena e al Museo d’Arte di Ravenna.

Di Lui hanno scritto, tra gli altri: Francesco Arcangeli, Renato Barilli, Stefano Benni, Alessandro Bergonzoni, Pietro Bonfiglioli, Pier Giovanni Castagnoli, Claudio Cerritelli. Enrico Crispolti, Fabrizio D’Amico, Andrea Emiliani, Paolo Fossati, Flaminio Gualdoni, Antonio Grulli, Roberto Pasini, Silvia Pegoraro, Tullio Pericoli, Francesco Poli, Roberto Roversi, Franco Solmi, Roberto Tassi, Dario Trento, Peter Weiermeier.


Pagina per Cuniberti

Testo di Flaminio Gualdoni scritto nel 1987 per la mostra alle gallerie Il Segno, L’Arco e L’Oca, Roma, aggiornato con una piccola piccola variazione.

Concentrate fluenze, ha il disegno di Cuniberti.
Orientale, nel ripensarsi all’estremo, nel decantarsi fino a essere nuda tensione del fantastico, segno che marca un differenziale in assenza di statica, fluttuando.
Occidentale, nel ridarsi come brandello conciso di narrazione, storietta, ad sensum temporale: come un crampo stilistico, di diario liciniano. Da vero, per dire con Gianni Celati, “narratore delle pianure”, carattere fondante dell’animus di Pirro, ma che è insieme Perelà.
Pagina è, prima di tutto, sequenza che presuppone uno sfogliare, un inseguirsi interno d’umori, minimi fremiti d’idea, germinazioni straniate. Pagina spazio, quello spazio fatto di “piccole strade per passare” che anche Gastone Novelli praticava, quello spazio astrattissimo e privato che è però concreto luogo d’esperienza, misura significativa delle movenze dell’intelletto e della sensibilità mentale, del loro farsi eccitazione nervosa della mano.
Più che ai fogli impaginati nel meretricio d’una cornice (“Servire in mano senza cornice”, prescrive lapidariamente l’artista), penso al loro cumularsi mormorante sul tavolo assorto dello studio di via Saragozza, dopo la lunga pigrizia geniale dell’invenzione, del lavorio interno, della concentrazione fatta di piccoli rituali domestici.
Penso, soprattutto, agli album – almeno otto, più qualcun altro iniziato – che si scalano lungo l’arco della vicenda di Cuniberti: quello del 1962-63, un altro iniziato nel 1966 e ripreso nel 1974, il nucleo della metà anni Settanta e primi Ottanta.
La struttura di libro è precisa, minuziosa fino all’ossessione la registrazione delle date, rimuginante l’insistenza, per decine e decine di fogli, sullo stesso tema: la testa, la figura, il paesaggio… Pause lunghe, poi folate di fantasmi, anche più e più in un sol giorno, varianti fulminee intorno a un apparire che già in seme ha l’innaturalità – e la dolcezza – del segno con memoria d’altre pagine, del fantasticare in filigrana cartacea.
È segno, doppio, che consegna, e insieme evoca artifizi, specchiamenti sottili e difformi: come in un piccolo museo dal catalogo esploso, che si ostina in un ordine che è la pantomima di se stesso; come lo scenario di un racconto di cui si sia persa la storia, e i cui materiali improvvisino trepide e metafisiche recite a soggetto; come un paesaggio che creda d’aver orizzonte, mentre il centro della terra non c’è più. Non figure, avvenimenti.
Fatti di sapori brulichii avvertimenti. Mappe d’un tesoro che non c’è ma fa lo stesso. Metriche dissolute e dissolte. Astuzie e grazie formali che si estenuano nel minimizzarsi, nel continuo spostarsi fuor di funzione.
Quanto c’è della sismografia introversa di Wols, in questi libri, in questi gruppi di fogli compaginati da una legatura di pensiero? Quanto del segnare fondamentale di Klee?
Molto, in termini d’amore. Nulla, in termini d’una pratica d’arte che si voglia alta. Cuniberti è un antieroe che nulla vuole testimoniare, che non vuole neppure militare nell’arte. Renitente, impertinente, sottrae la pratica all’ideologia e all’affermazione, le chiede e si chiede solo stupefazioni, frammenti disseminati d’intensità che vivano franchi dalla dissipazione mediocre della ragione, della fantasia, dell’intelligenza.
Così, soprattutto, la sua ironia si applica alla corrosione, e la sua affermata alterità si ribalta, di fatto, in ragionamento incalzante sull’arte, sulle sue miserabili seriosità.
E in indicazione d’una possibile, incontaminata capacità di poesia.


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Archivio Pier Achille Cuniberti “per Pirro e per Segno”
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A Venezia EVE’S POWER, la forza e la bellezza delle donne nei dipinti di Eileen Herres

Eileen Herres, Dento

Angelo Art Hotel
Calle de l’Angelo – San Marco – Venezia

Eileen Herres
EVE’S POWER

OPENING
14.09.2023 ore 18:30

Angelo Art Hotel – 403 San Marco – Venezia

Per quanto riguarda il suo percorso artistico, Eileen Herres sottolinea che ognuno possiede “il potere di cambiare e realizzare qualsiasi cosa immaginabile”, questa consequenzialità fra passione, talento, skills e realizzazione di obiettivi “alti” è evidente anche nella sua attuale serie di dipinti: “EVE’S POWER”.

“EVE’S POWER”, che sarà presentata nel corso della Mostra omonima con Opening giovedì 14 settembre alle ore 18.30 all’Angelo Art Hotel a due passi da Piazza San Marco, è una rappresentazione carica di emozioni della capacità di una donna di superare le sfide e di dispiegare le proprie risorse interiori. Ogni dipinto della serie racconta la propria storia, ispirata da esperienze personali, sogni ed emozioni.
Il titolo di questa esposizione, così diretto e privo di ambiguità in particolare in questo momento in cui un’intensificazione di terribili fatti di cronaca coincidono con la diffusione di una cultura distorta riguardo la donna, rappresenta un segnale che richiama l’attenzione sulla forza e la complessità femminile.
Nei diversi volti che troviamo nell’esposizione si riflette un’ampia gamma di emozioni, dalla gioia alla tristezza, dalla vulnerabilità alla determinazione.

Eileen Herres, History

La Mostra, curata da Isabella Mura e Nicolas Fiedler, è come se sviluppasse l’universo femminile per punti, come in un “manifesto” sociale ed intimo al contempo:
La forza interiore e la resilienza, necessarie per affrontare gli ostacoli e attraversare i momenti difficili che la vita ci presenta, che forniscono la capacità di superare e di poter uscire rafforzati dalle avversità. Nelle donne rappresentate da Eileen sono questi momenti di difficoltà e palingenesi che emergono con forza.
La grazia e l’eleganza che le donne sanno trasmettere sono affascinanti. L’artista sottolinea abilmente questa armonia tra essenza esteriore e interiore, accentuando così la magia femminile.
Ogni volto racconta una storia. Può essere il racconto dei loro successi, dei loro sogni, delle loro sfide, delle loro lotte e delle loro conquiste, una narrazione che l’artista vuole lasciare aperta all’interpretazione individuale del visitatore.

“Tutti dovrebbero potersi identificare – dice Eileen Herres – con un’opera d’arte in una forma o nell’altra. Per questo motivo, sottolineo che ogni espressione facciale che porto sulla tela ritrae una situazione o un’emozione che ognuno di noi deve aver vissuto in qualche momento. Che ognuno di noi deve aver vissuto prima o poi comprendendo cosa si prova a essere umani”.
Nel complesso, è l’affascinante combinazione di emozioni, forza, connessione, eleganza e storie che rende i volti delle donne una fonte di ispirazione inesauribile.
“Dipingendo i loro volti – conclude l’artista – spero di celebrare non solo la loro bellezza esteriore, ma anche le qualità interiori e i punti di forza che rendono le donne speciali e protagoniste …mozzafiato!!“.

Da innumerevoli anni l’arte è la protagonista indiscussa All’Angelo Art Hotel: dal 1924 infatti, è stato un archivio di arte e casa di importanti artisti come MatisseBraquePicassoPizzinatoVedovaGuttusoSantomaso (vincitore della Biennale del 1954) e molti altri. L’Hotel, rinnovato poi nel tempo, conserva ancora molte loro opere e stampe che si possono tuttora ammirare nelle aree comuni e nelle stanze dove sono esposte. È uno di quei luoghi magici veneziani che, pur non essendo un’Istituzione o una location deputata all’esposizione, alla conservazione e al dibattito artistico, hanno contribuito fattivamente alla storia dell’arte cittadina e internazionale.

Stella Eileen Herres – Note biografiche

Stella Eileen Herres

Stella Eileen Herres, nata nel 1993 a Francoforte, è un’artista per cui la creatività è sempre stata un punto fermo. Dipingere, disegnare e creare non sono mai stati semplici hobby, ma piuttosto un percorso di scoperta interiore. Dopo aver completato gli studi di architettura, ha scelto di seguire il suo sogno e di fare dell’arte la sua professione. Dal 2020, l’artista ha esposto le sue opere uniche in numerose mostre personali. I suoi dipinti si ispirano alla natura vibrante e vivace, all’architettura e alle sue emozioni ed esperienze personali. 

“Ci sono così tante cose incredibilmente belle che mi ispirano, ed è per questo che non ho mai voluto limitare me stessa e la mia creatività a uno stile o agli stessi materiali. Nel corso degli anni ho imparato diverse tecniche”, afferma l’artista. Quando crea le sue opere, utilizza una solida struttura 3D come base, sulla quale applica più strati di acquerello, acrilico o colori a olio, lavorati con varie spatole e pennelli. Spesso i giornali d’arte del mese corrispondente all’ideazione di ogni opera fanno vengono integrati nello sfondo e molti altri materiali arricchiscono sempre le sue opere.

Stella Eileen Herres è un’artista versatile che ispira gli spettatori con la sua creatività e passione attraverso le sue opere uniche. Le sue opere sono una fusione di natura, architettura ed esperienze personali, espresse in modo affascinante.


Eileen Herres – EVE’S POWER
Dal 09 settembre al 09 novembre 2023
OPENING – Giovedì 14 settembre, ore 18.30
PERSONALE
Location
Angelo Art Hotel 
Calle de l’Angelo 403 San Marco, Venezia

Studio associato di Federici
Ufficio stampa e comunicazione
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18- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Il Bosforo

18- Il Bosforo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Appena saliti a bordo, vediamo come un velo grigio stendersi su Costantinopoli, e su questo velo disegnarsi le montagne della Moravia e dell’Ungheria, e le alpi della bassa Austria. È un rapido cangiamento di scena che si vede sempre salendo sopra un bastimento in cui s’incontrano già i visi e si sentono già gli accenti del paese per cui si parte. Siamo imprigionati in un cerchio di facce tedesche che ci fanno sentire innanzi tempo il freddo e l’uggia del settentrione. I nostri amici ci hanno lasciati: non vediamo più che tre fazzoletti bianchi che sventolano sopra un caicco lontano, in mezzo a un via vai di barconi neri, in faccia alla casa della dogana. Siamo nello stessissimo punto in cui si fermò il nostro bastimento siciliano il giorno dell’arrivo. È una bella sera d’autunno, splendida e tiepida. Costantinopoli non ci è mai parsa così ridente e così grande. Per l’ultima volta cerchiamo di fissarci nella mente i suoi contorni immensi e i suoi colori vaghi di città fatata; e slanciamo lo sguardo per l’ultima volta in fondo a quel meraviglioso Corno d’oro, che ci si nasconderà fra pochi momenti per sempre. I fazzoletti bianchi sono scomparsi. Il bastimento si muove. Tutto pare che si sposti. Scutari viene avanti, Stambul si tira indietro, Galata gira sopra sè stessa, come per vederci partire. Addio al Corno d’oro! Un guizzo del bastimento ci rapisce il sobborgo di Kassim-Pascià, un altro guizzo ci porta via Eyub, un altro, la sesta collina di Stambul; scompare la quinta, si nasconde la quarta, svanisce la terza, sfuma la seconda; non rimane più che la collina del Serraglio, la quale, grazie al cielo, non ci lascerà per un pezzo. Navighiamo già nel bel mezzo del Bosforo, rapidamente. Passa il quartiere di Top-hané, passa il quartiere di Funduclù; fuggono le facciate bianche e cesellate del palazzo di Dolma-Bagcé; e Scutari distende, per l’ultima volta, il suo anfiteatro di colli coperti di giardini e di ville. Addio, Costantinopoli! cara e immensa città, sogno della mia infanzia, sospiro della mia giovinezza, ricordo incancellabile della mia vita! Addio, bella e immortale regina dell’Oriente! Che il tempo muti le tue sorti, senza offendere la tua bellezza, e possano vederti un giorno i miei figli colla stessa ebbrezza d’entusiasmo giovanile colla quale io ti vidi e t’abbandono.

La mestizia dell’addio, però, non durò che pochi momenti, perché un’altra Costantinopoli, più vasta, più bella, più allegra di quella che lasciavo sul Corno d’oro, mi si stendeva dinanzi per la lunghezza di ventisettemila metri, sulle due più belle rive della terra.

Il primo villaggio che si presenta a sinistra, sulla riva europea del Bosforo, è Bescik- Tass; un grosso villaggio turco, o piuttosto un grande sobborgo di Costantinopoli, che si stende ai piedi d’una collina, intorno a un piccolo porto. Dietro gli s’apre una bella valle; l’antica valle degli allori di Stefano, di Bisanzio, che rimonta verso Pera; fra le case s’innalza un gruppo di platani che ombreggiano il sepolcro del famoso corsaro Barbarossa; un gran caffè, stipato di gente, sporge sulle acque, sorretto da una selva di palafitte; il porto è pieno di barche e di caicchi; la riva affollata; la collina coperta di verzura, la valle piena di case e di giardini. Ma non c’è più l’aspetto dei sobborghi di Costantinopoli. C’è già la grazia e la gaiezza tutta propria e indimenticabile dei villaggi del Bosforo. Le forme son più piccine, la verzura più fitta, i colori più arditi. È come una nidiata di casette ridenti, che paiono sospese fra la terra e l’acqua, una cittadina da innamorati e da poeti, destinata a durare quanto una passione od un estro, piantata là per un capriccio, in una bella notte d’estate. Non vi si è ancora fissato lo sguardo, che già è lontana, e ci passa davanti il palazzo di Ceragan, o piuttosto una schiera di palazzi di marmo bianco, semplici e magnifici, decorati di lunghe file di colonne e coronati di terrazze a balaustri, sui quali si drizza una merlatura vivente d’innumerevoli uccelli bianchi del Bosforo, messi in rilievo dal verde vigoroso delle colline della riva. Ma qui comincia il caro tormento di veder fuggire mille bellezze, nel punto che se ne ammira una sola. Mentre noi contempliamo Bescik-Tass e Ceragan, dall’altra parte fugge la riva asiatica, coperta di villaggi deliziosi, che si vorrebbero poter comprare e portar via, come gioielli. Fugge Kuzgundgiuk, tinto di tutti i colori dell’iride, col suo piccolo porto, dove dice la tradizione che approdasse la giovenca Io, dopo aver attraversato il Bosforo, per salvarsi dai tafani di Giunone; passa Istauros, colla sua bella moschea dai due minareti; scompare il palazzo imperiale di Beylerbey, coi suoi tetti conici e piramidali, e le sue mura gialle e grigie, che presenta l’aspetto misterioso e bizzarro di un convento di principesse; e poi il villaggio di Beylerbey, riflesso dalle acque, dietro al quale s’innalza il monte di Bulgurlù; e tutti questi villaggi, raccolti o sparsi ai piedi di piccole colline verdissime, e tuffati in una vegetazione opulenta, che par che tenda a coprirli, sono legati fra loro da ghirlande di ville e di casette e da lunghi filari d’alberi che corrono lungo la riva, o scendono a zig zag dalle alture al mare, a traverso a innumerevoli giardini e orti e piccoli prati, disposti a scacchi e a scaglioni, e coloriti d’infinite sfumature di verde.

Bisogna dunque rassegnarsi a veder tutto di volo, girando continuamente la testa a destra e a sinistra, con una regolarità automatica. Oltrepassato di poco Ceragan, si vede, a sinistra, sulla riva europea, il grande villaggio Orta-Kioi, al di sopra del quale mostra la sua cupola luccicante la moschea della Sultana Validè, madre d’Abdul-Aziz, e sporge i suoi tetti graziosi il palazzo di Riza-Pascià; ai piedi d’una collina, sulla cui cima, in mezzo a una folta vegetazione, s’alzano le muraglie bianche e leggiere del chiosco imperiale della Stella. Orta-Kioi è abitato da molti banchieri armeni, franchi e greci. In quel momento vi approdava il piroscafo di Costantinopoli. Una folla sbarcava, un’altra folla stava aspettando sullo scalo, per imbarcarsi. Erano signore turche, signore europee, ufficiali, frati, eunuchi, zerbinotti, fez, turbanti, cappellini, cappelli a staio, confusi: spettacolo che si vede in tutte le venti stazioni del Bosforo, principalmente la sera. In faccia a Orta-Kioi, sulla riva asiatica, brilla di mille colori, in mezzo a una corona di ville, il villaggio di Cengel, dell’ancora, da una vecchia ancora di ferro che trovò su quella riva Maometto II; e gli si alza alle spalle il chiosco bianco, di trista memoria, da cui Murad IV, roso da un’invidia feroce, ordinava la morte della gente allegra che passava pei campi cantando. Guardando daccapo verso l’Europa, ci troviamo in faccia al bel villaggio e al porto grazioso di Kuru-Cesmé, l’antica Anaplos, dove Medea, sbarcata con Giasone, piantò l’alloro famoso; e voltandoci nuovamente verso l’Asia, vediamo i due villaggi ridenti di Kulleli e di Vani-Kioi, sparsi lungo la riva, a destra e a sinistra d’una smisurata caserma, simile a un palazzo reale, che si specchia nelle acque. Dietro ai due villaggi s’alza una collina coronata da un grande giardino, in mezzo al quale biancheggia, quasi tutto nascosto dagli alberi, il chiosco dove Solimano il Grande visse tre anni, nascosto in una piccola torre, per sottrarsi alle ricerche delle spie e dei carnefici di suo padre Selim. Mentre noi cerchiamo la torre fra gli alberi, il bastimento passa dinanzi ad Arnot-Kioi, il villaggio degli Albanesi, ora abitato da Greci, disteso in forma di mezzaluna, sulla riva europea, intorno a un piccolo seno, pieno di bastimenti a vela. Ma come si può vedere ogni cosa? Un villaggio ci ruba l’altro, una bella moschea ci distrae da un paesaggio gentile, e mentre si guardano i villaggi ed i porti, passano i palazzi dei visir, dei pascià, delle Sultane, dei grandi eunuchi, dei gran signori; case gialle, azzurre e purpuree, che paiono galleggianti sull’acqua, vestite d’edera e di liane, coperte di terrazze colme di fiori, e mezzo nascoste in boschetti di cipressi, d’allori e d’aranci; edifizi sormontati da frontoni corinzi e decorati di colonne di marmo bianco; villette svizzere, casine giapponesi, piccole regge moresche, chioschi turchi, di tre piani, sporgenti l’uno sull’altro, che sospendono sull’azzurro del Bosforo i balconi ingraticolati degli arem, e spingono innanzi i loro piccoli scali a gradinate e i loro giardinetti accarezzati dalla corrente; tutti piccoli edifizi leggeri e passeggieri, che rappresentano appunto la fortuna dei loro abitatori: il trionfo d’una giovinetta, il buon successo d’un intrigo, un’alta carica che sarà perduta domani, una gloria che finirà nell’esilio, una ricchezza che svapora, una grandezza che crolla. Non c’è quasi tratto delle due rive che non sia coperto di case. È una specie di Canal grande d’una smisurata Venezia campestre. Le ville, i chioschi, i palazzi s’alzano l’un dietro l’altro, disposti in modo che tutta la facciata di ciascheduno è visibile, e quei di dietro paiono piantati sul tetto di quei davanti, e in mezzo agli uni e agli altri, e di là dai più lontani, tutto è verde, per tutto s’alzano punte e chiome di querce, di platani, d’aceri, di pioppi, di pini, di fichi, fra cui biancheggiano fontane e scintillano cupolette di turbé e di moschee solitarie.

Voltandoci verso Costantinopoli, vediamo ancora, confusamente, la collina del Serraglio, e la cupola enorme di Santa Sofia, che nereggia sul cielo limpido e dorato. Intanto sparisce Arnot-Kioi, Vani, Kulleli, Cengel, Orta, e tutto è mutato intorno a noi. Par di essere in un vasto lago. Una piccola baia si apre a sinistra, sulla riva europea; un’altra piccola baia a destra, sulla riva asiatica. Sulla riva di sinistra si stende a semicerchio la bella cittadina greca di Bebek, ombreggiata da alberi altissimi, fra i quali sorge una bella moschea antica e il chiosco imperiale d’Humaiun-Habad, dove altre volte i Sultani ricevevano a convegni segreti gli ambasciatori europei. Una parte della città si nasconde nella verzura folta d’una piccola valle; un’altra parte si sparpaglia alle falde d’una collina, coperta di querce, sulla cima della quale è un bosco famoso per un’eco potentissima, che risponde alla pesta d’un cavallo collo scalpitio d’uno squadrone. È un paesaggio grazioso e ridente da incapricciare una regina; ma si dimentica, voltandosi dalla parte opposta. Qui la riva dell’Asia offre una veduta da paradiso terrestre. Sopra un largo promontorio si distende, ad arco sporgente, il villaggio di Kandilli, variopinto come un villaggio olandese, con una moschea bianchissima, e un folto corteo di villette; dietro al quale s’alza la collina florida di Igiadié, sormontata da una torre merlata, che spia gl’incendi sulle due rive. A destra di Kandilli, sboccano sulla baia, a breve distanza l’una dall’altra, due valli: quella del grande e quella del piccolo ruscello celeste, fra le quali si stende la prateria deliziosa delle Acque dolci d’Asia, coperta di sicomori, di querce e di platani, e dominata dal chiosco ricchissimo della madre d’Abdul-Megid, disegnato e scolpito sullo stile del palazzo di Dolma-Bagcé, e circondato di alti giardini, rosseggianti di rose. E di là dal «gran ruscello celeste» si vedono ancora i mille colori del villaggio d’Anaduli-Hissar, steso alle falde d’un’altura, su cui si drizzano le torri snelle del castello di Baiazet-Ilderim, che fronteggia il castello di Maometto II, posto sulla riva europea. Tutto questo bel tratto del Bosforo, in quel momento, era pieno di vita. Nella baia di Europa guizzavano centinaia di barchette; passavano legni a vela e a vapore, diretti al porto di Bebek; i pescatori turchi gettavano le reti dai loro gabbiotti aerei, sostenuti sull’acqua da altissime travi incrociate; un piroscafo di Costantinopoli versava sullo scalo della cittadina europea una folla di signore greche, di Lazzaristi, di allievi della scuola protestante americana, di famigliole cariche d’involti e di vesti; e dalla parte opposta, si vedevano, col cannocchiale, gruppi di signore musulmane, che passeggiavano sotto gli alberi delle Acque dolci, o stavano sedute in crocchio sulla sponda del ruscello celeste, mentre un gran numero di caicchi e di barche a baldacchino, piene di turchi e di turche, andavano e venivano lungo la riva. Pareva una festa. Era un non so che d’arcadico e d’amoroso, che metteva voglia di buttarsi giù dal bastimento, di raggiungere a nuoto una delle due rive, e di piantarsi là, e di dire: – Nasca che nasca, non mi voglio più muovere di qui; voglio vivere e morir qui, in mezzo a questa beatitudine musulmana.

Ma a un tratto lo spettacolo cangia e tutte quelle fantasie pigliano il volo. Il Bosforo si stende diritto dinanzi a noi, e presenta una vaga immagine del Reno; ma d’un Reno ingentilito, e tinto sempre dei colori caldi e pomposi dell’oriente. A sinistra, un cimitero coperto da un bosco di cipressi e di pini, rompe la linea delle case, sino a quel punto non interrotta; e subito appresso, alle falde del piccolo monte roccioso d’Hermaion, s’innalzano le tre grandi torri di Rumili-Hissar, il castello d’Europa, circondate di avanzi di mura merlate e di torri minori, che scendono in una gradinata pittoresca di rovine fin sull’orlo della riva. È il castello famoso che innalzò Maometto II un anno prima della presa di Costantinopoli, malgrado le calde rimostranze di Costantino, i cui ambasciatori, come tutti sanno, furono rimandati indietro minacciati di morte. È quello il punto in cui è più impetuosa la corrente (chiamata perciò «gran corrente» dai Greci e corrente di Satana dai Turchi) ed è pure il tratto più stretto del Bosforo, non distando le due rive che poco più di cinquecento metri. Là fu gettato da Mandocle di Samo il ponte di barche su cui passarono i settecentomila soldati di Dario, e là pure si crede che siano passati i diecimila, ritornando dall’Asia. Ma non rimane più traccia né delle due colonne di Mandocle, nè del trono scavato nella roccia del monte Hermaion, dal quale il re persiano avrebbe assistito al passaggio del suo esercito. Un piccolo villaggio turco sorride segretamente, rannicchiato ai piedi del castello, e la riva asiatica fugge sempre più verde e più allegra. È una successione continua di casette di barcaioli e di giardinieri, di vallette che riboccano di vegetazione, di piccoli seni solitari quasi coperti dai rami giganteschi degli alberi della riva, sotto i quali passano lentamente delle velette bianche di pescatori; di prati fioriti che scendono con un declivio dolcissimo fino all’orlo della riva; di piccole rocce da giardino fasciate d’edera; di piccoli cimiteri che biancheggiano sulla sommità di alti poggi tagliati a picco. Improvvisamente, balza fuori sulla stessa riva asiatica, il bel villaggio di Kanlidgié, tutto vermiglio, posto su due promontori rocciosi, contro i quali si rompono le onde rumorosamente, e ornato d’una bella moschea che slancia i suoi due minareti candidi fuori d’una macchia di cipressi e di pini a ombrello. E qui ricominciano a innalzarsi i giardini, a modo di belvederi, l’uno dietro l’altro, e a spesseggiare le ville, fra le quali splende il palazzo incantevole di quel celebre Fuad-Pascià, diplomatico e poeta, vanitoso, voluttuoso e gentile, che fu chiamato il Lamartine ottomano. Poco più innanzi, sulla riva europea, si mostra il villaggio amenissimo di Balta-Liman, posto all’imboccatura d’una valletta, per cui scende nel porto un piccolo fiume, e dominato da una collina sparsa di ville, fra le quali s’alza l’antico palazzo di Rescid-Pascià; e poi la piccola baia d’Emir-Ghian-Ogli Bagcè, tutta verde di cipressi, in mezzo ai quali brilla d’una bianchezza di neve una moschea solitaria, lambita dalle acque, e sormontata da un grande globo irto di raggi d’oro. Intanto il bastimento s’avvicina ora all’una ora all’altra riva, e allora si vedono mille particolari del grande paesaggio: qui il vestibolo del selamlik d’una ricca casa turca, aperto sulla sponda, in fondo al quale fuma un grosso maggiordomo, coricato sopra un divano; là un eunuco, ritto sull’ultimo gradino della scala esterna d’una villa, che aiuta due turche velate a scendere in un caicco; più oltre un giardinetto circondato di siepi, e quasi interamente coperto da un platano, ai piedi del quale riposa, a gambe incrociate, un vecchio turco dalla barba bianca, che medita sul Corano; famiglie di villeggianti raccolte sulle terrazze; branchi di capre e di pecore che pascolano per i prati alti; cavalieri che galoppano lungo la riva, carovane di cammelli che passano sulla sommità delle colline, disegnando i loro contorni bizzarri sul cielo sereno.

All’improvviso il Bosforo s’allarga, la scena cangia, siamo di nuovo fra due baie, nel mezzo d’un vasto lago. A sinistra è una baia stretta e profonda, intorno alla quale gira la cittadina greca d’Istenia; Sosthenios, dal tempio e dalla statua alata che innalzarono là gli Argonauti, in onore del Genio tutelare che li aveva resi vittoriosi nella lotta contro Amico, re di Bebrice. Grazie a una leggera curva che descrive il bastimento verso l’Europa, vediamo distintamente i caffè e le casette schierate lungo la riva, le piccole ville sparse fra gli olivi e i vigneti, la valle che sbocca nel porto, il torrentello che precipita da un’altura e la famosa fontana moresca di marmo bianco nitidissimo, ombreggiata da un gruppo d’aceri enormi, da cui spenzolano le reti dei pescatori, in mezzo a un va e vieni di donnine greche, che portano le anfore sul capo. In faccia a Istenia, sopra la baia della riva asiatica, fa capolino, fra gli alberi, il villaggio turco di Cibulkú, dove c’era il convento rinomato dei Vigili, che pregavano e cantavano, senza interruzione, il giorno e la notte. Le due rive del Bosforo sono piene, da un mare all’altro, delle memorie di questi cenobiti e anacoreti fanatici del quinto secolo, che erravano per i colli, carichi di croci e di catene, tormentati da cilici e da collari di ferro, o che stavano settimane e mesi, immobili sulla cima d’una colonna o d’un albero, intorno a cui andavano a prostrarsi, a digiunare, a pregare, a percotersi il petto principi, soldati, magistrati e pastori, invocando una benedizione o un consiglio, come una grazia di Dio. Ma è un potere singolare che ha il Bosforo, quello di sviare irresistibilmente dal passato il pensiero del viaggiatore che scorra per le prime volte lungo le sue rive. Tutti i ricordi, tutte le immagini più grandi, più belle o più tristi, che possa fornire la storia o la leggenda di quei luoghi, rimangono offuscate, soverchiate, sto per dire sepolte da quel rigoglio prodigioso di vegetazione, da quello sfolgorio di colori festosi, da quella esuberanza di vita, dalla giovinezza poderosa e superba di quella bella natura tutta sorriso e tutta festa. Bisogna fare uno sforzo per credere che in quelle acque, in mezzo a quella bellezza fatata, abbiano potuto urtarsi furiosamente, ardersi e insanguinarsi, le flotte dei bulgari, dei goti, degli eruli, dei bizantini, dei russi, dei turchi. I castelli medesimi, che coronano le colline, non destano nemmeno un’idea di quel sentimento di terrore poetico, che ispirano in altri luoghi le rovine di quella natura; e paion piuttosto una decorazione artificiale del paesaggio, che monumenti veri di guerra, che un giorno abbiano vomitato la morte. Tutto è come velato da una tinta di languore e di dolcezza che non desta se non pensieri sereni e un desiderio immenso di pace.

Di là da Istenia il Bosforo s’allarga ancora, e il bastimento arriva in pochi minuti in un punto da cui si gode la più stupenda veduta di quante se ne sono offerte sinora ai nostri occhi. Voltandoci verso l’Europa, abbiamo davanti la piccola città greca ed armena di Ieni- Kioi, posta alle falde d’un’alta collina coperta di vigneti e di boschetti di pini, e distesa ad arco sporgente sopra una riva rocciosa, contro cui si rompe la corrente con grande strepito; e un po’ più in là, la bellissima baia di Kalender, piena di barchette, contornata di casette da giardino, e inghirlandata da una vegetazione lussureggiante, sopra la quale sporgono le terrazze aeree d’un chiosco imperiale. Voltandoci indietro, abbiamo davanti la riva asiatica che s’incurva in un grande arco, formando un meraviglioso anfiteatro di colli, di villaggi e di porti. È Indgir-Kioi, il villaggio dei fichi, coronato di giardini; accanto a Indgir-Kioi, Sultanié, che par nascosto in un bosco; dopo Sultanié, il grosso villaggio di Beikos, circondato di orti e di vigneti, e ombreggiato da altissimi noci, il quale si specchia nel più bel golfo del Bosforo, che è l’antico golfo dove il re di Bebrice fu vinto da Polluce, e dov’era l’alloro prodigioso che faceva impazzire chi ne toccava le foglie; e di là da Beikos, lontano, il villaggio di Iali, l’antica Amea, che non par più che un mucchio di fiori gialli e vermigli sopra un grande tappeto verde. Ma questo non è che un abbozzo del grande quadro. Bisogna immaginare le forme indescrivibilmente gentili di quei colli, che si vorrebbero accarezzare colla mano; quegli innumerevoli piccolissimi villaggi senza nome, che paiono messi là dalla mano d’un pittore; quella vegetazione di tutti i climi, quelle architetture di tutti i paesi, quelle gradinate di giardini, quelle cascatelle d’acqua, quelle ombre cupe, quelle moschee luccicanti, quell’azzurro picchiettato di vele bianche e quel cielo rosato dal tramonto.

Ma arrivato là provai anch’io un senso di sazietà, come lo provano quasi tutti, a un certo punto del Bosforo. Stanca quella successione interminabile di linee molli e di colori ridenti. È una monotonia di gentilezza e di grazia in cui il pensiero si addormenta. Si vorrebbe veder sorgere tutt’a un tratto sopra una di quelle rive una roccia smisurata e deforme o stendersi un lunghissimo tratto di spiaggia deserta e triste, sparsa degli avanzi d’un naufragio. E allora, per distrarsi, non c’è che a fissar l’attenzione sulle acque. Il Bosforo pare un porto continuo. Si passa accanto alle corazzate splendide dell’armata ottomana; in mezzo a flotte di bastimenti mercantili di tutti i paesi, dalle vele variopinte e dalle poppe bizzarre, affollate di gente strana; s’incontrano i legni dalle forme antiche dei porti asiatici del Mar Nero, e le piccole corvette eleganti delle Ambasciate; passano, come saette, le barchette a vela dei signori, che volano a gara, sotto gli occhi degli spettatori schierati sulla riva; barche di tutte le forme, piene di gente di tutti i colori, si spiccano o approdano ai mille piccoli scali dei due continenti; i caicchi rimorchiati guizzano in mezzo a lunghe file di barconi carichi di mercanzie; le lance imbandierate dei marinai si incrociano colle zattere dei pescatori, coi caicchi dorati dei Pascià, coi piroscafi di Costantinopoli, pieni di turbanti, di fez e di veli, che attraversano il canale a zig zag per toccare tutte le stazioni. E siccome anche il nostro bastimento va innanzi serpeggiando, così tutto questo spettacolo par che ci giri intorno: i promontori si spostano, le colline cambiano inaspettatamente di forma, i villaggi si nascondono e poi ricompaiono in un nuovo aspetto, e davanti e dietro di noi, ora il Bosforo si chiude come un lago, ora s’apre e lascia vedere una fuga di laghi e di colli lontani; poi, tutt’a un tratto, le colline tornano a congiungersi davanti e di dietro, e si rimane in una conca verde da cui non si capisce come si potrà uscire; ma s’ha appena il tempo di scambiar dieci parole con un vicino, che già la conca è sparita, e si vedono intorno nuove alture, nuove città, nuovi porti.

Si è fra la baia di Terapia, – Pharmacia, dei veleni di Medea –, e la baia di Hunchiar Iskelessi, scalo dei Sultani, dove fu segnato nel 1833 il trattato famoso che chiuse i Dardanelli alle flotte straniere. Qui lo spettacolo del Bosforo è al penultimo grado della sua bellezza. Terapia è la più splendida cittadina che orni le sue rive, dopo Bujukderè, e la valle che si apre dietro la baia di Hunchiar-Iskelessi è la più verde, la più cara, la più poetica valle che si possa ammirare fra il Mar di Marmara e il Mar Nero. Terapia si stende in parte sopra una riva diritta, ai piedi di una grande collina, e parte intorno a un seno profondo, che è il suo porto, pieno di bastimenti e di barche, sul quale sbocca la valletta di Krio-nero, in cui un’altra parte della città s’appiatta fra la verzura. La riva del mare è tutta coperta di caffè pittoreschi, che sporgono sull’acqua, di alberghi signorili, di casette pompose, di gruppi d’alberi altissimi, che ombreggiano piazzette e fontane; di là dai quali s’alzano i palazzi d’estate delle Ambasciate di Francia, d’Italia e di Inghilterra, e sopra questi, un chiosco imperiale; e tutt’intorno, e su per la collina, terrazze su terrazze, giardini su giardini, ville su ville, boschetti sopra boschetti; e gente vestita di vivi colori formicola nei caffè, nel porto, sulle rive, su per i sentieri delle alture, come in una piccola metropoli in festa. Dalla parte dell’Asia, invece, tutto è pace. Il piccolo villaggio di Hunchiar- Iskelessi, soggiorno prediletto dei ricchi armeni di Costantinopoli, dorme fra i platani e i cipressi, intorno al suo piccolo porto, percorso da poche barchette furtive; di là dal villaggio, sulla cima d’una vasta scala di giardini, torreggia, solitario, il chiosco magnifico d’Abdul-Aziz; e di là dal chiosco svolta e si nasconde, in mezzo a uno sfarzo indescrivibile di vegetazione tropicale, la valle favorita dei Padiscià, piena di misteri e di sogni.

Ma tutta questa bellezza non par più nulla, un miglio più innanzi, quando il bastimento è arrivato davanti al golfo di Bujuk-deré. Qui è la maestà e la grazia suprema del Bosforo. Qui chi era già stanco della sua bellezza, ed aveva pronunciato irriverentemente il suo nome, si scopre la fronte, e gli domanda perdono. Si è in mezzo a un vasto lago coronato di meraviglie, che ispira l’idea di mettersi a girare, come i dervis, sulla prora del bastimento, per veder tutte le rive e tutte le colline in un punto. Sulla riva d’Europa, intorno a un golfo profondo, dove va a morire la corrente in molli ondulazioni, alle falde d’una grande collina, sparsa di ville innumerevoli, s’allarga la città di Bujuk- derè, vasta, colorita come un’immensa aiuola di fiori, tutta palazzine, chioschi e villette tuffate in una verzura vivissima, che par che esca dai tetti e dai muri, e colmi le strade e le piazze. La città si stende a destra fino ad un piccolo seno, che è come un golfo nel golfo, intorno a cui gira il villaggio di Kefele-Kioi; e dietro a questo s’apre una larga vallata, tutta verde di praterie, e biancheggiante di case, per la quale si va al grande acquedotto di Mahmud e alla foresta di Belgrado. È la valle in cui, giusta la tradizione, si sarebbe accampato nel 1096 l’esercito della prima crociata; e uno dei sette platani giganteschi, a cui il luogo deve la sua fama, è chiamato il platano di Goffredo di Buglione. Di là da Kefele- Kioi, s’apre un’altra baia, verde di cipressi e bianca di case, e di là dalla baia, si vede ancora Terapia, sparpagliata ai piedi della sua collina verde cupa. Arrivati fin là collo sguardo, ci si volta indietro, verso l’Asia, e si prova un sentimento vivissimo di sorpresa. Si è dinanzi al più alto monte del Bosforo, il monte del Gigante, della forma d’una enorme piramide verde, dov’è il sepolcro famoso, chiamato da tre leggende «letto d’Ercole, fossa d’Amico, tomba di Giosuè giudice degli Ebrei;» custodito ora da due dervis e visitato dai musulmani infermi, che vanno a deporvi i brandelli dei loro vestiti. Il monte spinge le sue falde alberate e fiorite fin sulla riva, dove, fra due promontori verdeggianti, s’apre la bella baia d’Umuryeri, macchiettata di cento colori dalle case d’un villaggio musulmano disperso capricciosamente sulle sue sponde, al quale fanno ala altri branchi di villini e di casette, disseminate, come fiori buttati via, per le praterie e per le alture vicine. Ma lo spettacolo non è tutto in questo cerchio. Diritto in faccia a noi luccica il Mar Nero; e voltandoci verso Costantinopoli, si vede ancora, di là da Terapia, in una lontananza violacea e confusa, la baia di Kalender, Kieni-Kioi, Indgir-Kioi, Sultanié, che paiono, piuttosto che prospetti veri, vedute immaginarie d’un mondo remoto. Il sole tramonta; la riva d’Europa comincia a velarsi di ombre azzurrine e cineree; la riva d’Asia è ancora dorata; le acque lampeggiano; sciami di barchette, cariche di mariti e d’amanti, reduci da Costantinopoli, corrono verso la riva europea, incontrate, arrestate, circuite da altre barchette, cariche di signore e di fanciulli, che vengono dalle ville; dai caffè di Bujukderè ci arrivano suoni interrotti di musiche e di canti; le aquile ruotano sopra la montagna del Gigante, i marki bianchi svolazzano lungo la riva, gli alcioni radono le acque, i delfini guizzano intorno al bastimento, l’aria fresca del Mar Nero ci soffia nel viso. Dove siamo? Dove andiamo? È un momento d’illusione e d’ebbrezza, in cui i ricordi di tutto quello che vediamo da due ore sulle due rive del Bosforo, si confondono nella nostra mente nella immagine d’una sola prodigiosa città, dieci volte più grande di Costantinopoli, abitata da popoli di tutta la terra, privilegiata di tutti i favori di Dio, e abbandonata a una festa perpetua, che ci riempie di tristezza e d’invidia.

Ma questa è l’ultima visione. Il bastimento esce rapidamente fuori del golfo di Buiukderé. Vediamo a sinistra il villaggio di Sariyer, circondato di cimiteri, dinanzi al quale s’apre una piccola baia, formata da quell’antico promontorio di Simas, dove s’innalzava il tempio a Venere meretricia, oggetto d’un culto particolare dei naviganti greci; poi il villaggio di Jeni-Makallé; poi il forte di Teli-Tabia, che fa fronte a un altro piccolo forte posto sulla riva asiatica, ai piedi del monte del Gigante; poi il castello Rumili-Cavak, che segna i suoi contorni severi sul cielo rosato dagli ultimi chiarori del crepuscolo. Sull’altra riva, di fronte a Rumili-Kavak, s’alza un’altra fortezza, la quale corona il promontorio, ove sorgeva il tempio dei dodici Dei, costrutto dall’argivo Frygos, vicino a quello di Giove «distributore dei venti propizi», fondato dai Calcedonesi, e convertito poi da Giustiniano in una chiesa consacrata all’arcangelo Michele. È quello il punto dove il Bosforo si restringe per l’ultima volta, fra l’estremo contrafforte delle montagne di Bitinia e l’estrema punta della catena dell’Hemus; considerato sempre come la prima porta del canale, da difendersi contro le invasioni del Settentrione, e teatro, perciò, di lotte ostinate fra bizantini e barbari, fra veneziani e genovesi. Due castelli genovesi, posti l’uno in faccia all’altro, fra i quali era stesa una catena di ferro che chiudeva il canale, mostrano ancora confusamente, là presso, le loro torri e le loro mura rovinate. Da quel punto il Bosforo va diritto, gradatamente allargandosi, al mare; le due rive sono alte e ripide, come due enormi bastioni, e non mostrano più che qualche gruppo di case meschine, qualche torre solitaria, qualche rovina di monastero, qualche avanzo di moli e d’argini antichi. Dopo un lungo tragitto, vediamo ancora scintillare sulla riva europea i lumi del villaggio di Buiuk- Liman, e dall’altra parte la lanterna d’una fortezza, che domina il promontorio dell’Elefante; poi, a sinistra, la gran massa rocciosa dell’antica Gipopoli, dove sorgeva il palazzo di Fineo, infestato dalle Arpie; e a destra la fortezza del capo Poiraz, che ci appare come una vaga macchia oscura sul cielo grigiastro. Qui le rive sono lontanissime; il canale par già un grande golfo; la notte discende, la brezza marina geme fra i cordami del bastimento, e il tristo mare cimmerium stende dinanzi a noi il suo infinito orizzonte livido e inquieto. Ma il pensiero non si può ancora staccare da quelle rive piene di poesia e di memorie, non più sopraffatte dalla bellezza della natura; e vola, a sinistra, ai piedi dei piccoli Balcani, a cercare la torre d’Ovidio esule, e la muraglia meravigliosa d’Anastasio; e vaga, a destra, per una vasta terra vulcanica, a traverso le foreste infestate dai cinghiali e dagli sciacalli, in mezzo alle capanne d’un popolo selvaggio e malnoto, di cui ci par di vedere le ombre bizzarre affollate sull’alta riva, che c’imprechino un viaggio malavventurato sulle fera litora Ponti. Due punti luminosi rompono per l’ultima volta l’oscurità, come gli occhi ardenti di due ciclopi, messi a guardia dello stretto fatato: l’Anaduli-Fanar, il fanale dell’Asia, a destra; e il Rumili-Fanar a sinistra, ai piedi del quale le Simplegadi favolose ci mostrano ancora vagamente, nell’ombra della riva, i profili tormentati delle loro rocce. Poi i due lidi dell’Europa e dell’Asia non son più che due strisce nere, e poi quocumque adspicias, nihil est nisi pontus et aer, come cantava il povero Ovidio. Ma la vedo ancora, la mia Costantinopoli, dietro a quelle due rive nere scomparse; la vedo più grande e più luminosa ch’io non l’abbia mai veduta dal ponte della Sultana Validé e dalle alture di Scutari; e le parlo e la saluto e l’adoro come l’ultima e la più cara visione della mia giovinezza che tramonta. Ma uno spruzzo improvviso d’acqua salsa m’innaffia il volto e mi butta in terra il cappello; – mi sveglio; – mi guardo intorno; – la prora è deserta, il cielo è nebbioso, un vento rigido d’autunno mi agghiaccia le ossa, il mio buon Yunk, preso dal mal di mare, m’ha lasciato; non sento più che il tintinnio delle lanterne e lo scricchiolio del bastimento che fugge, sballottato dalle onde, nell’oscurità della notte…. Il mio bel sogno orientale è finito.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.