Roma, Aranciera di Villa Borghese: “CURARE AD ARTE: LA BELLEZZA COME TERAPIA” > Museo Carlo Bilotti

Al Museo Bilotti di Roma
si è tenuto un incontro dedicato al potere curativo dell’arte,
organizzato da Fondazione Bracco in collaborazione con Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Gemelli ART
e in occasione della mostra “Ritratte. Donne di arte e di scienza”

“RITRATTE. DONNE DI ARTE E DI SCIENZA”
13 luglio – 10 settembre 2023
Museo Carlo Bilotti | Aranciera di Villa Borghese, Roma

Si è tenuto il 7 settembre l’incontro di approfondimento dedicato all’arte come strumento di terapia medica organizzato da Fondazione Bracco in collaborazione con Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Gemelli ART presso il Museo Carlo Bilotti, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, nell’ambito della mostra “Ritratte. Donne di arte e di scienza“.

All’evento – aperto da un messaggio di saluto di Diana Bracco, Presidente di Fondazione Braccoe di Federica Pirani della Sovrintendenza Capitolina – sono intervenuti Vincenzo Valentini, Direttore del Dipartimento di Diagnostica per Immagini, Radioterapia Oncologica e Ematologia del Policlinico Gemelli, Alfonsina Russo, Direttrice Parco Archeologico del Colosseo ed Enzo Grossi, medico e Advisor scientifico di Fondazione Bracco.

L’iniziativa ha messo in luce la prospettiva scientifica sugli effetti benefici dell’arte in medicina e nella cura dei pazienti, presentando gli studi di welfare culturale sviluppati da Fondazione Bracco a partire dal 2011 e il Progetto Art4ART del Policlinico Gemelli. Il tema è stato inoltre approfondito attraverso una prospettiva complementare, dedicata alle dimensioni benefiche di un luogo d’arte, con la relazione della Direttrice Parco Archeologico del Colosseo, ritratta in foto nella mostra che ha ospitato l’incontro.

L’incontro di oggi è solo l’ultima tappa di un viaggio che Fondazione Bracco ha iniziato oltre dieci anni fa“, ha affermato Diana Bracco. “È dal 2011, infatti, che indaghiamo il valore curativo dell’arte e della musica per tante patologie. Personalmente ci credo da sempre, e oggi è dimostrato da numerosi studi sulla popolazione di diversi Paesi che frequentare musei, concerti, teatri, cinema, mostre aumenti la percezione del proprio benessere e faccia bene alla persona. In altre parole, la cultura migliora la qualità della vita dell’individuo. E questo vale anche per i pazienti che devono affrontare il difficile percorso della cura. Sono davvero orgogliosa che la piattaforma Art4ART del Gemelli abbia accolto anche fotografie, filmati e storie tratti dalla nostra mostra Ritratte: mi auguro che le biografie di queste grandi donne possano appassionare tanti pazienti e, soprattutto, tante ragazze.

Il Progetto Art4ART, nato nel 2019 all’interno del Centro di Radioterapia oncologica della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Gemelli ART (Advanced Radiation Therapy), si inserisce nel filone dedicato all’arte che ha visto, nel tempo, le sale di trattamento trasformarsi in ambienti che riproducono luoghi dell’antica Roma, in un grande acquario con annesso sottomarino per i piccoli pazienti o di ascoltare musiche scelte dal paziente attraverso l’uso di tecnologie innovative.

Il nostro primo obiettivo è accogliere e accompagnare i nostri pazienti nel faticoso percorso di cura, mettendo a disposizione la bellezza dell’Arte e della Natura, nelle sue molteplici espressioni“. ha dichiarato Vincenzo Valentini, Direttore del Gemelli ART. “L’obiettivo è quello di offrire un contesto bello, curato, attrattivo, in grado di attivare le risorse emotive e motivazionali nascoste in ognuno di noi per favorire la consapevole partecipazione alla terapia e consentire una autentica relazione con il personale sanitario tutto. L’arte non è solo uno strumento di accoglienza e di intrattenimento, ma un vero e proprio strumento di cura. Abbiamo in questi anni raccolto molte evidenze scientifiche che sostengono la validità di questo approccio. La peculiarità del Gemelli ART, infatti, è quella di essere un centro ospedaliero in cui si realizza il connubio tra arte, tecnologia e assistenza e tutto questo con la finalità di portare avanti l’umanizzazione delle cure e accompagnare e guarire meglio con la bellezza dell’arte i pazienti che si rivolgono al Policlinico Gemelli in una fase impegnativa della loro vita.

Il rapporto tra benessere personale e fruizione culturale è per Fondazione Bracco un tema prioritario: fin dal 2011 la Fondazione ha avviato progetti intesi a divulgare evidenze scientifiche e a incoraggiare la fruizione culturale nei luoghi di cura. In particolare, il connubio tra arte e scienza, concepito come relazione di continuo scambio tra saperi, è un focus specifico di indagine.

I progressi scientifici di diverse discipline quali la scienza bio-psico-sociale, la scienza del wellbeing, la scienza dello stress e il neuroimaging, hanno avuto una convergenza molto forte permettendo la nascita di una vera e propria scienza della bellezza” ha dichiarato Enzo Grossi, Advisor scientifico di Fondazione Bracco. “Ciò ha permesso effettivamente di dare plausibilità biologica alle crescenti evidenze scientifiche sul ruolo dell’arte e della cultura nella promozione del benessere e della salute della popolazione generale, e di supporto integrativo o sostitutivo ai farmaci per le persone malate, da cui il concetto di welfare culturale. L’esposizione alla bellezza, variamente intesa, migliora la qualità di vita dell’individuo in modo sostanziale, fino ad arrivare ad un effettivo prolungamento dell’aspettativa di vita, riducendo il rischio di gravi patologie degenerative.

Alfonsina Russo, Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, ha presentato “Salus per artem”, progetto nato per promuovere l’idea della cultura come fattore migliorativo della qualità della vita. Avviato nel 2018, è fondato sulla convinzione, ormai consolidata anche scientificamente, che la partecipazione delle persone ad attività in contatto diretto con l’armonia, di cui sono portatori i monumenti e le opere d’arte, possa generare benessere; e a beneficiarne in particolar modo sono i pubblici con esigenze particolari. All’insegna del diritto universale alla bellezza, nel tempo le iniziative di “Salus per artem” si sono quindi progressivamente sviluppate e arricchite di contenuti, coinvolgendo le numerose associazioni che sul territorio si occupano quotidianamente dei diversi tipi di disabilità e di disagio sociale.

La mostra fotografica “Ritratte. Donne di arte e di scienza” – curata e realizzata dalla Fondazione Bracco in collaborazione con Arthemisia e Zetema Progetto Cultura e promossa da Roma CapitaleAssessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali – è dedicata ai volti, alle carriere e al merito di donne italiane che hanno conquistato ruoli di primo piano nell’ambito della scienza e dei beni culturali. L’esposizione, visitabile fino al 10 settembre 2023 presso il Museo Carlo Bilotti di Roma ad ingresso gratuito, propone in un ideale unione di saperi tra arte e scienza, un viaggio esemplare tra luoghi d’arte e laboratori scientifici.


Sede
Museo Carlo Bilotti | Aranciera di Villa Borghese
Viale Fiorello La Guardia, 6
00197 – Roma RM

Informazioni
T. +39 060608

Siti internet
www.fondazionebracco.com
www.museiincomuneroma.it
www.arthemisia.it

Social e Hashtag ufficiale
#Ritratte
@FondazioneBracco
@arthemisiaarte
@MuseiInComuneRoma

Ingresso gratuito

Ufficio Stampa Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

Palma di Montechiaro: Gattopardo d’oro 2023, tra letteratura, cinema e storia

Monastero delle Benedettine

Gattopardo d’oro 2023, l’affresco della Sicilia di Tomasi di Lampedusa, tra letteratura, cinema e storia

Tra i premiati Nicola Piovani, Giulio Scarpati e Debora Caprioglio

Palma di Montechiaro (AG), 9 settembre, ore 21.00 (Piazza del Monastero delle Benedettine)

Echi e suggestioni gattopardiane rivivranno nei luoghi della memoria, che hanno fatto da sfondo alle vicende che s’intrecciano in una delle opere letterarie più amate al mondo.

Nelle scalinate del Monastero delle Benedettine – primo Palazzo Ducale e residenza dei Tomasi già nel Seicento – sabato 9 settembre alle ore 21.00, una lettura contemporanea del romanzo di Tomasi di Lampedusa, grazie al Premio “Gattopardo D’Oro” 2023. Un evento promosso dall’Istituzione Giuseppe Tomasi di Lampedusa, presieduta da Letizia Pace, con il patrocinio del Comune di Palma di Montechiaro, che quest’anno vedrà la direzione artistica di Nino Graziano Luca.

Una terza edizione che ripercorrerà storia, cultura, innato orgoglio siciliano, per un vero e proprio viaggio nel passato. Sul palco – a ritirare il Premio realizzato dell’Artista orafo del Festival di Sanremo Michele Affidato – ospiti d’eccezione: il maestro Premio Oscar Nicola Piovani, gli attori Giulio Scarpati e Debora Caprioglio, il direttore dell’intrattenimento Day Time di RaiUno Angelo Mellone (in collegamento da Roma), il sovrintendente del Teatro Massimo di Catania Giovanni Cultrera, la giornalista del TG1 Adriana Pannitteri e lo storico capostruttura Rai Paolo De Andreis.

Letizia Pace

«Un ringraziamento va al sindaco di Palma di Montechiaro Stefano Castellino e al mio Cda, per aver creduto nella crescita di questo progetto –commenta la presidente Letizia Pace – abbiamo costruito un programma unico per valorizzare un Premio che vuole interpretare il legame profondo dell’autore del “Gattopardo” con i luoghi e il paesaggio. Inoltre, abbiamo scelto un palcoscenico che ha una forte valenza simbolica proprio per il legame emotivo che lega Giuseppe Tomasi di Lampedusa al Monastero delle Benedettine: è qui, infatti, che lo scrittore ritrovò lo slancio per ultimare il suo capolavoro. Palma di Montechiaro ha una storia secolare luminosa e il nostro compito è quello di accendere i riflettori su questo luogo-simbolo per tutta la Sicilia, contribuendo alla promozione della settima arte, della letteratura e della storia; per rafforzare il senso d’appartenenza a questa terra e al suo patrimonio; per accreditare questo paese quale location gattopardiana; per fare leva sul turismo culturale; per educare le nuove generazioni alla letteratura e al cinema».

«Il Gattopardo – sottolinea Nino Graziano Luca – parola dopo parola, ritrae l’incantevole architettura che sorregge la storia dell’Isola, nel bene e nel male. Pur evidenziando i limiti della stasi, dell’immobilismo, io trovo – contrariamente a quanto scritto da decenni – uno stimolo al cambiamento, una disponibilità al nuovo. Per questo ho cercato di ideare un progetto artistico che oltre a “sorreggere la memoria storica di quest’Opera”, a 65 anni dalla sua uscita e a 60 dalla realizzazione del magistrale lungometraggio di Luchino Visconti, possa costituire un ponte verso il futuro, uno sprone al rinnovamento. Le decine di ballerini del Corpo di Ballo della Compagnia nazionale di danza storica da me diretta (famosa per la partecipazione in 2 film prodotti dalla Disney) consentiranno al pubblico d’immergersi nell’atmosfera di una volta, con una magica esecuzione in costume dell’800 del Valzer, della Mazurka, della Contraddanza dal film “Il Gattopardo”. L’Orchestra Ensemble del Bellini – diretta dal M° Giovanni Anastasio, farà risuonare la piazza con l’esecuzione di celebri colonne sonore. Per citare Tomasi di Lampedusa – conclude il direttore artistico, che preannuncia una scena topica con la ballerina Michela Sorrentino (nipote di Goffredo Lombardo, produttore del film del Gattopardo) – la coppia Angelica-Don Fabrizio farà una magnifica figura e un profumo di bouquet a la Maréchale si leverà tutt’intorno». Tra gli ospiti in programma anche la giornalista Sara Manfuso e la saggista e lampedusista Maria Antonietta Ferraloro, autrice del libro “Il Gattopardo raccontato a mia figlia”.

Ambientazione storica, costumi d’epoca (firmati da Andreas Di Dio), ospiti d’eccezione, coreografie e musiche celebri, per un’esperienza culturale che renderà omaggio al talento.


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Iniziate le riprese di “Viaggio in Sicilia”, la nuova docu-serie Rai con Simonetta Agnello Hornby

Busto di Pirandello in Contrada Caos, Villaseta , Agrigento (AG)

“Viaggio in Sicilia”, docu-serie RAI ad Agrigento e Porto Empedocle con la scrittrice Simonetta Agnello Hornby

Sono iniziate le riprese di una nuova docu-serie per la Rai in Sicilia con la scrittrice siciliana più famosa di oggi, che guiderà i telespettatori lungo la Costa del Mito.

Sono in corso ad Agrigento e a Porto Empedocle, nel cuore della Costa del Mito, le riprese di del docu-film “Viaggio in Sicilia” che andrà in onda in quattro puntate, ad inizio del 2024 su Rai 3. Simonetta Agnello Hornby, la scrittrice siciliana più famosa vivente, dopo la morte di Andrea Camilleri, guiderà i telespettatori in “un viaggio inedito” alla scoperta della sua terra d’origine spaziando dalla letteratura alla storia della sua famiglia, dall’arte alle specialità enogastronomiche di Sicilia, terra così ricca di contrasti e contaminazioni.

La scrittrice è stata già protagonista di altri programmi tv di successo, come Io&George (Rai3, 2015), Il Pranzo di Mosè (Realtime, 2013), Nessuno può Volare (docufilm LaEffe, 2017). 
Simonetta Agnello Hornby guiderà nel suo Viaggio assieme ai telespettatori anche l’amico e fumettista Massimo Fenati, genovese trapiantato a Londra. Attraverso i suoi occhi Simonetta svelerà ai telespettatori tutta la magia della sua terra. Un’intera puntata è dedicata alla città di Agrigento, ai luoghi di Pirandello e di Andrea Camilleri: in particolare sono state girate alcune scene del documentario alla Miniera di Ciavolotta, al Monastero di Santo Spirito, in piazza Pirandello e a Porto Empedocle: la via Roma, l’area del porto e  la casa di Andrea Camilleri, dove Agnello Hornby ha incontrato un’altra scrittrice, la nipote di Andrea Camilleri, Arianna Mortelliti, figlia del regista Rocco Mortelliti e della primogenita di Camilleri, Andreina. Le riprese proseguiranno in altre località siciliane lungo la Costa del Mito per poi tornare il 10 settembre ad Agrigento nella Valle dei Templi, più precisamente al  Giardino della Kolymbethra. 

La statua di Andrea Camilleri nella centralissima via Atenea di Agrigento

La produzione televisiva è Pesci Combattenti S.r.l. di Roma che sta realizzando la serie per Rai Cultura. Il progetto è firmato da Cristiana e Riccardo Mastropietro e Giulio Testa.
La regia è di Riccardo Mastropietro.
Ha collaborato per la logistica e le autorizzazioni la Film Commission della DMO Distretto Turistico Valle dei Templi.


Melina Cavallaro
Uff. stampa & Promozione FREE TRADE Roma
Valerio de Luca –  resp. addetto stampa
Via Piave 74, 00198 Roma

17- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: I Turchi

17- I Turchi

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ora, prima di salire sul bastimento austriaco che fuma nel Corno d’oro, in faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero, mi rimane da esporre modestamente, da povero viaggiatore, alcune osservazioni generali, che rispondano alla domanda: – Che cosa t’è parso dei Turchi? – osservazioni spontanee, liberissime da ogni considerazione degli avvenimenti presenti, e ricavate tali e quali dalle mie memorie di quei giorni. A quella domanda: – Che cosa t’è parso dei Turchi? – mi si ravviva, per prima cosa, l’impressione che produsse in me, così il primo giorno che l’ultimo, l’aspetto esteriore della popolazione maschia di Stambul. Anche non tenendo conto della differenza delle forme fisiche, è un’impressione affatto diversa da quella che produce la gente di qualunque altra città europea. Sembra di vedere un popolo – non so come render meglio la mia idea – nel quale tutti pensino perpetuamente alla medesima cosa. La stessa impressione può produrre, in un abitante dell’Europa meridionale, che osservi superficialmente, gli abitanti delle città nordiche; ma la cosa è molto diversa. Questi hanno la serietà e il raccoglimento di gente affaccendata, che pensi ai fatti propri; i turchi hanno l’aspetto di gente che pensi a qualche cosa remota e indeterminata. Paiono tutti filosofi assorti in un’idea fissa, o sonnambuli, che camminino senza accorgersi del luogo dove sono e delle cose che hanno intorno. Guardano tutti diritto e lontano come chi è abituato a contemplare dei grandi orizzonti, e hanno una vaga espressione di tristezza negli occhi e nella bocca, come chi è abituato a vivere molto chiuso in sé stesso. È in tutti la stessa gravità, la stessa compostezza di modi, lo stesso riserbo del linguaggio, dello sguardo, dei gesti. Paiono tutti signori, educati tutti ad un modo, dal pascià al merciaiolo, e ammantati d’una specie di dignità aristocratica, la quale fa sì che nessuno s’accorgerebbe, a primo aspetto, che ci sia una plebe a Stambul, se non fosse la differenza dei vestimenti. Son quasi tutti visi freddi, che non rivelano affatto l’animo e il pensiero. È rarissimo trovare una di quelle fisonomie chiare, così frequenti tra noi, che sono come lo specchio d’un’indole amorevole o appassionata o bisbetica, e che consentono un giudizio pronto e sicuro dell’uomo. Fra loro ogni viso è un enimma; il loro sguardo interroga, ma non risponde; la loro bocca non tradisce nessun movimento del cuore. Non si può dire quanto pesi sull’animo dello straniero questo mutismo dei volti, questa freddezza, questa uniformità d’atteggiamenti statuari e di sguardi fissi, che non dicono nulla. A volte vien voglia di gridare in mezzo alla folla: – Ma scotetevi una volta! diteci chi siete, che cosa pensate, che cosa vedete dinanzi a voi, per aria, con quegli occhi di vetro! – E la cosa par tanto strana, che si stenta quasi a credere che sia naturale; si dubita, in qualche momento, che sia una finzione convenuta, o l’effetto passeggiero di qualche malattia morale comune a tutti i musulmani di Costantinopoli. Dà nell’occhio alle prime, però, in quella uniformità di modi e d’atteggiamenti, una differenza notevole d’aspetto fra una parte e l’altra della popolazione. I tratti originali della razza turca, che è bella e robusta, non son rimasti inalterati che nel basso popolo, che serba per necessità o per sentimento religioso la sobrietà di vita dei suoi padri. In esso si vedono i corpi asciutti e vigorosi, le teste ben formate, gli occhi vivi, il naso aquilino, le ossa mascellari prominenti, e un che di forte e d’ardito in tutte le forme della persona. I turchi delle alte classi, per contro, in cui è antica la corruzione e maggiore la mescolanza del sangue straniero, hanno per lo più dei corpi grossi d’una molle pinguedine, teste piccine, fronti basse, occhi senza lampo, labbra cadenti. E a questa differenza fisica corrisponde una non meno grande, o forse maggiore differenza morale, che è quella che corre fra il turco vero, schietto, antico, e quell’essere ambiguo, senza colore e senza sapore, che si chiama il turco della riforma. Dal che nasce una grande difficoltà allo studiare quello che si chiama in modo generale il popolo turco; poiché colla parte di esso, che ha serbato intatto il carattere nazionale, o non c’è modo di mescolarsi o non c’è verso d’intendersi; e l’altra parte, colla quale c’è facilità di commercio e d’osservazione, non rappresenta fedelmente né l’indole ne le idee della nazione. Ma né la corruzione né la nuova tinta di civiltà europea ha ancora tolto ai turchi delle classi superiori quel non so che d’austero e di vagamente triste, che si osserva nel popolo basso, e che, non considerato negli individui, ma nella generalità della popolazione, produce un’impressione innegabilmente favorevole. A giudicarne, in fatti, dall’apparenza, la popolazione turca di Costantinopoli parrebbe la più civile e la più onesta dell’Europa. Non si dà caso, nemmeno per le strade più solitarie di Stambul, che uno straniero sia insultato; si possono visitare le moschee, anche durante le preghiere, con assai più sicurezza d’essere rispettati che non potrebbe averne un turco che visitasse le nostre chiese; tra la folla, non s’incontra mai uno sguardo, non dico insolente, ma neanche troppo curioso; rarissime le risse, rarissima la gente del popolo che si scanagli in mezzo alla strada, nessun vocìo di donnacole alle porte, alle finestre, nelle botteghe; nessun’apparenza pubblica di prostituzione, nessun atto indecente; il mercato poco meno dignitoso della moschea; per tutto una gran parsimonia di gesti e di parole; non canti, non risate clamorose, non schiamazzi plebei, non crocchi importuni che impediscano il passo; visi, mani e piedi puliti; rari i cenci, e raramente sudici; punto becerume; e una manifestazione universale e reciproca di rispetto fra tutte le classi sociali. Ma ciò non è che apparenza. Il marcio è nascosto. La corruzione è dissimulata dalla separazione dei due sessi, l’ozio è larvato dalla quiete, la dignità fa da maschera all’orgoglio, la compostezza grave dei visi, che pare indizio di profondi pensieri, nasconde l’inerzia mortale dell’intelletto, e quella che sembra temperanza civile di vita, non è che mancanza di vera vita. La natura, la filosofia, l’intera vita di questo popolo è significata da uno stato particolare dello spirito e del corpo, che si chiama Kief, e che è il supremo dei suoi piaceri. Aver mangiato parcamente, aver bevuto un bicchiere d’acqua di fonte, aver detto le preghiere, sentire la carne quieta e la coscienza tranquilla, e star così, in un punto da cui si veda un vasto orizzonte, seduti all’ombra d’un albero, seguitando collo sguardo i colombi del cimitero sottoposto, i bastimenti lontani, gl’insetti vicini, le nuvole del cielo e il fumo del narghilé, pensando vagamente a Dio, alla morte, alla vanità dei beni della terra e alla dolcezza del riposo eterno d’un’altra vita: ecco il Kief. Star spettatore inoperoso del gran teatro del mondo: ecco la grande aspirazione del turco. A questo lo porta la sua natura antica di pastore contemplativo e lento, la sua religione che lega le braccia all’uomo, rimettendo ogni cosa a Dio, la sua tradizione di soldato dell’islamismo, per il quale non c’è altra azione veramente grande e necessaria che combattere e vincere per la propria fede, e finita la battaglia, ogni dovere è compiuto. Per lui, tutto è fatale; l’uomo non è che uno strumento nelle mani della Provvidenza; è inutile che egli si agiti per dare alle cose umane altro corso da quello che è prescritto nel cielo; la terra è un caravanserai; Dio ha creato l’uomo perchè vi passi, pregando e ammirando le sue opere; lasciamo fare a Dio; lasciamo cadere quello che cade e passare quello che passa; non ci affanniamo per rinnovare, non ci affanniamo per conservare. Così il suo supremo desiderio è la quiete, ed egli si preserva con somma cura da tutte le commozioni che possono turbare l’armonia pacata della sua vita. Quindi né avidità di sapere, né febbre di guadagni, né furore di viaggi, né passioni vaghe e inappagabili d’amore e d’ambizione. La mancanza dei moltissimi bisogni intellettuali e fisici, per soddisfare i quali noi lottiamo con un lavoro continuo, fa sì ch’egli non comprenda nemmeno in noi la ragione di questo lavoro. Egli lo considera come un indizio di aberrazione morbosa del nostro spirito. L’ultimo scopo d’ogni fatica parendogli necessariamente la pace di cui egli gode senza affaticarsi, gli pare altresì che sia più saggio e più utile l’arrivarci per la via breve e piana per cui egli ci arriva. Tutto il grande lavorio di pensieri e di braccia dei popoli europei, gli pare un anfanamento puerile, perché non ne vede gli effetti in una possessione maggiore della sua felicità ideale. Non lavorando, non ha sentimento del valore del tempo; e mancandogli questo sentimento, non può né desiderare né pregiare tutti i trovati dell’ingegno umano che tendono ad accelerare la vita e il cammino dell’umanità. È capace di domandarsi a che cosa giovi una strada ferrata se non conduce a una città dove si possa viver più felici che in quella da cui si parte. La sua fede fatalista, che gli fa parer vano il darsi pensiero dell’avvenire, è cagione pure ch’egli non pregi nessuna cosa se non per quel tanto di godimento sicuro e immediato che gli può procurare. Perciò non gli pare che un sognatore l’europeo che prevede e che prepara, che getta le fondamenta d’un edifizio di cui non vedrà il compimento, che consuma le sue forze, che sacrifica la sua pace ad un fine dubbio e lontano. Perciò giudica la nostra razza una razza frivola, meschina, presuntuosa, imbastardita, di cui il solo pregio è una scienza orgogliosa delle cose terrene, ch’egli disdegna, se non in quanto è costretto a valersene per non rimanerci al di sotto. E ci disprezza. Per me è questo il sentimento dominante che ispiriamo noi europei ai veri turchi che costituiscono ancora la grande maggioranza della nazione; e si potrà negare e fingere di non crederci; ma non si può non sentire da chi sia vissuto poco o molto in mezzo a loro. E questo sentimento di disprezzo deriva da molte cagioni: la prima delle quali è la considerazione d’un fatto significantissimo per essi: che cioè, da più di quattro secoli, benché relativamente scarsi di numero, dominano una gran parte di Europa di fede avversa alla loro, e vi si mantengono malgrado tutto quello che accadde e che accade. La parte minima della nazione vede la cagione di questo fatto nelle gelosie e nelle discordie degli Stati d’Europa; la parte maggiore la vede invece nella superiorità delle proprie forze, e nel nostro avvilimento. Non cade neppur nella mente, infatti, a nessun turco del volgo che un’Europa islamitica avrebbe subito e subirebbe l’affronto d’una conquista cristiana dai Dardanelli al Danubio. Ai vanti della nostra civiltà, essi oppongono il fatto della loro dominazione. Orgogliosi di sangue, fortificati in quest’orgoglio dalla consuetudine dell’impero, abituati a sentirsi dire, in nome di Dio, ch’essi appartengono a una razza conquistatrice, nata alla guerra, non al lavoro, abituati anzi a vivere del lavoro dei vinti, non comprendono nemmeno come i popoli soggetti a loro possano accampare un diritto qualsiasi all’eguaglianza civile. Per loro, posseduti da una fede cieca nel regno sensibile della Provvidenza, la conquista dell’Europa è stata l’adempimento di un decreto di Dio; è Dio che li ha investiti, in segno di predilezione, di questa sovranità terrena; e il fatto ch’essi la conservino, contro tante forze ostili, è una prova incontestabile del loro diritto divino, e nello stesso tempo un argomento luminoso in favore della verità della loro fede. Contro questo loro sentimento si spezzano tutti i ragionamenti di civiltà, di diritto, d’eguaglianza. La civiltà per loro non è che una forza ostile che vuol disarmarli senza combattere, a poco a poco, a tradimento, per abbassarli a paro dei loro soggetti e spogliarli della loro dominazione. Quindi, oltre al disprezzarla come vana, la temono come nemica; e poiché non possono respingerla colla forza, le oppongono la invincibile resistenza della loro inerzia. Trasformarsi, incivilirsi, eguagliarsi ai loro soggetti, essi comprendono che significa doversi mettere a gareggiare con quelli d’ingegno, di studio e di lavoro; acquistare una superiorità nuova; rifare colle forze dello spirito la conquista già fatta colla spada; e a questo s’oppone, oltre il loro interesse materiale di dominatori, il loro disprezzo religioso per gli infedeli, la loro alterezza soldatesca, la loro indolenza fatta seconda natura, l’indole del loro ingegno mancante d’ogni facoltà iniziatrice, e intorpidito nell’immobilità di quelle cinque idee tradizionali, che formano tutto il patrimonio intellettuale della nazione. Essi non vedono, d’altra parte, in quella classe sociale, che accetta, secondo loro, la civiltà europea, e che rappresenta ai loro occhi lo stato in cui l’Europa vorrebbe veder ridotti tutti i figli d’Osmano, non vedono in quei loro fratelli in soprabito e in guanti, che balbettano il francese e non vanno alla moschea, un esempio che possa ragionevolmente convertirli. Come rappresenta la civiltà quella parte della nazione ottomana? Su questo son presso a poco tutti d’accordo. Il nuovo turco non vale il vecchio. Egli ha preso i nostri panni, i nostri comodi, i nostri vizi, le nostre vanità; ma non ha accolto, per ora, né i nostri sentimenti, né le nostre idee; e in questa trasformazione parziale, ha perduto quello che c’era di buono in fondo alla sua natura genuina di Osmano. Il vecchio turco non vede per ora altri frutti dell’incivilimento che una più diffusa peste dicasterica, un’impiegataglia innumerevole, oziosa, inetta, miscredente, rapace, mascherata alla franca, che disprezza tutte le tradizioni nazionali, e una specie di jeunesse dorée, corrotta e sfrontata, che promette di riuscire assai peggiore dei suoi padri. Così vestire e così vivere, giusta il concetto del vero turco, è esser civili; e infatti egli chiama fare, pensare, vivere alla franca, tutti gli usi e tutte le azioni che non solo la sua coscienza di maomettano, ma la coscienza di qualunque uomo onesto condanna. Considera quindi gli «inciviliti», non come musulmani più avanzati degli altri sulla via d’un miglioramento qualsiasi; ma come gente scaduta, traviata, poco meno che apostata e che traditrice della nazione; e diffida delle novità, e le respinge per quanto è in lui, non foss’altro che perché gli vengono da quella parte, in cui egli ne vede tutto giorno gli effetti funesti. Ogni novità europea è per lui un attentato contro il suo carattere e contro i suoi interessi. Il governo è rivoluzionario, il popolo è conservatore; la semenza delle nuove idee casca in un terreno rigido e unito che le rifiuta gli umori per la fecondazione; la mano di chi regge le cose, stringe ed agita l’elsa; ma la lama gira nel manico. Questa è la ragione per cui tutta l’opera riformatrice che si va tentando da cinquant’anni, non ha ancora passato la prima pelle della nazione. Si sono mutati i nomi, sono rimaste le cose. Il poco che fu fatto, fu fatto colla violenza, e a questo il popolo attribuisce l’audacia crescente degl’infedeli, la corruzione che piglia campo nel cuore dell’impero, e tutte le sventure nazionali. Perché mutare le nostre istituzioni, egli si domanda, se son quelle colle quali abbiamo vinto e dominato per secoli? Perché adottar quelle che non ebbero forza di resistere all’urto della nostra spada? L’organesimo, la vita, le tradizioni del popolo turco son quelle d’un esercito vincitore accampato in Europa; esso ne esercita il comando, ne gode i privilegi e gli ozii, e ne sente l’orgoglio; e come tutti gli eserciti, preferisce la disciplina di ferro, che gli concede la prepotenza sui vinti, a una disciplina più mite, ma che incatena il suo arbitrio di vincitore. Ora lo sperare che questo stato di cose, immobile da secoli, possa mutare nel giro di pochi anni, è un sogno. Le avanguardie leggere della civiltà possono procedere quanto vogliono rapidamente; ma il grosso dell’esercito, carico ancora delle pesanti armature medioevali, o non si muove, o non le segue che alla lontana, a lentissimo passo. Non sono che cose di ieri, convien ricordarsi, il dispotismo cieco, i giannizzeri, il serraglio coronato di teste, il sentimento dell’invincibilità degli osmani, il raià considerato e trattato con un essere immondo, gli ambasciatori di Francia vestiti e pasciuti sul limitare della sala del trono, per simboleggiare la vile povertà degl’infedeli al cospetto del Gran Signore. Ma su questo argomento, non c’è, credo, gran disparità di pareri nemmeno fra gli Europei e i Turchi medesimi. La disparità dei giudizii, e quindi la difficoltà per uno straniero di dare un giudizio proprio, è nell’estimazione delle intime qualità individuali del turco; poiché a interrogarne i raià, non si sentono che i vilipendii dell’oppresso contro l’oppressore; a domandarne gli Europei liberi delle colonie, i quali non hanno ragione né di temere né di odiare gli Osmani, non solo, ma hanno mille ragioni di compiacersi dello stato attuale delle cose, non si ottengono in generale che giudizi, forse coscienziosamente, ma certo eccessivamente favorevoli. I più di questi sono concordi nel riconoscere il turco probo, franco, leale, e sinceramente religioso. Ma riguardo al sentimento religioso, la cui conservazione gli potrebbe esser tenuta in conto d’un grande merito, è da notarsi che la religione in cui si mantiene saldo, non s’oppone ad alcune delle sue tendenze e ad alcuno dei suoi interessi; accarezza, anzi, la sua natura sensuale, giustifica la sua inerzia, sancisce la sua dominazione; egli vi si attiene tenacemente, poiché sente che la sua nazionalità è nel suo dogma e il suo destino nella sua fede. Riguardo alla probità, si citano molte prove di fatti individuali dei quali si potrebbero citare esempi innumerevoli anche fra il più corrotto popolo europeo. Ma è da considerarsi, anche a questo riguardo, che non ha poca parte l’ostentazione nella probità che mostra il turco nei suoi commerci coi cristiani, coi quali fa spesso per orgoglio quello che non farebbe per semplice impulso della coscienza, poiché gli ripugna di comparire dappoco in faccia a gente a cui si tiene superiore di razza e di valore morale. Così nascono pure dalla sua stessa condizione di dominatore certe qualità, astrattamente pregevoli, di franchezza, di fierezza, di dignità, che non è ben certo se avrebbe conservate, messo nella condizione di chi gli è soggetto. Non gli si può negare, però, né il sentimento della carità, il quale è il solo balsamo agl’infiniti mali della sua società mal ordinata, benché incoraggi l’indolenza e moltiplichi la miseria; né altri sentimenti che sono indizi di gentilezza d’animo, come la gratitudine ch’egli serba per i più piccoli benefizi, il culto dei morti, la cortesia ospitale, il rispetto degli animali. È bello il suo sentimento dell’eguaglianza di tutte le classi sociali. È innegabile una certa moderazione severa della sua indole, che traspare dagli innumerevoli proverbi pieni di saggezza e di prudenza; una certa semplicità patriarcale, una tendenza vaga alla solitudine e alla malinconia, che esclude la volgarità e la tristizia dell’animo. Senonché tutte queste qualità galleggiano, per così dire, al sommo dell’anima sua, nella quiete non turbata della vita ordinaria; e v’è in fondo, come addormentata, la sua violenta natura asiatica, il suo fanatismo, il suo furore di soldato, la sua ferocia di barbaro, che, stimolati, prorompono, e ne balza fuori un altr’uomo. Il perché è giusta la sentenza che il turco ha un’indole mitissima quando non taglia le teste. Il tartaro è come rannicchiato dentro di lui, e assopito. Il vigore nativo è rimasto intero in lui, quasi custodito dalla indolente mollezza della sua vita, la quale non se ne serve che nelle occasioni supreme. Così gli è rimasto intero il coraggio di cui la cultura dell’intelligenza rallenta la molla, raffinando il sentimento della vita, resa più cara dal concetto e dalla speranza di godimenti maggiori. In lui la passione religiosa e guerriera trova un campo non guasto né da dubbi, né da ribellioni dello spirito, né da cozzi d’idee; una sostanza tutta e istantaneamente infiammabile; un uomo tutto d’un pezzo che scatta, a un tocco, tutto intero; una lama sempre affilata, su cui non è scritto che il nome d’un Dio e d’un Sovrano. La vita sociale ha appena digrossato in lui l’uomo antico della steppa e della capanna. Spiritualmente, egli vive ancora nella città presso a poco come viveva nella tribù, in mezzo alla gente, ma solitario coi suoi pensieri. Non c’è, anzi, fra loro, una vera vita sociale. La vita dei due sessi dà l’immagine di due fiumi paralleli, i quali non confondono le loro acque, se non qua e là per via di comunicazioni sotterranee. Gli uomini si raccolgono fra loro, ma non vivono in intimità di pensiero gli uni cogli altri; si avvicinano, ma non si legano; ciascuno preferisce alla espansione di sé medesimo, quella che un grande poeta definì mirabilmente la vegetazione sorda delle idee. La nostra conversazione, agile e varia, che scherza, discute, insegna, ricrea, il nostro bisogno di dare e di ricevere sentimenti e pensieri, questa estrinsecazione reciproca del nostro essere, in cui l’intelligenza si esercita e il cuore si riscalda, pochissimi tra loro la conoscono. I loro discorsi radono quasi sempre la terra e trattano per lo più di cose materialmente necessarie. L’amore è escluso, la letteratura è privilegio di pochi, la scienza è un mito, la politica si riduce per lo più a una questione di nomi, gli affari non occupano che una piccolissima parte nella vita del maggior numero. Alle discussioni astratte la natura della loro intelligenza si rifiuta. Essi non comprendono bene che quello che vedono e quello che toccano; del che è una prova la loro lingua stessa, la quale difetta ogni volta che c’è da esprimere un’astrazione; per il che i turchi istruiti sono costretti a ricorrere all’arabo e al persiano, o a una lingua europea. Essi non sentono il bisogno, d’altra parte, di forzare la mente a comprendere cose che son fuori dei loro desideri, e quasi della loro vita. Il persiano è più investigatore, l’arabo è più curioso: il turco non ha che una suprema indifferenza per quello che non conosce. E non avendo idee da scambiare, non cerca la compagnia degli europei; e non ama né le loro interminabili e sottili discussioni, né loro stessi. Né ci può esser intera confidenza fra gli uni e gli altri, dacchè l’uno dei due nasconde perpetuamente una parte di sé: i suoi affetti più intimi, la sua casa, i suoi piaceri, e quello che più importa, il vero sentimento che nutre verso l’altro; che è un sentimento invincibile di diffidenza. Il turco tollera l’armeno, sprezza l’ebreo, odia il greco, diffida del franco. Sopporta, in generale, tutti quanti, come un grosso animale che si lascia passeggiare sulla schiena una miriade di mosche, riserbandosi a darci su una codata quando si senta pungere nel vivo. Lascia che tutti facciano, armeggino, rimestino ogni cosa intorno a lui; si vale degli europei che gli possono essere utili; accetta le novazioni materiali di cui riconosce il vantaggio immediato; sta a sentire senza batter palpebra le lezioni di civiltà che gli si danno; muta leggi, fogge e cerimoniali; impara a ripetere correttamente le nostre sentenze filosofiche; si lascia travestire, imbellettare, mascherare; ma dentro è sempre, immutabilmente, invincibilmente lo stesso. Eppure ripugna alla ragione il rassegnarsi a credere che l’azione lenta e continua della civiltà non possa, in un periodo di tempo indeterminato, infondere la scintilla d’una nuova vita in questo gigantesco soldato asiatico, che dorme a traverso ai due continenti, e non si sveglia mai che per brandire la spada. Ma considerando gli sforzi fatti e i frutti ottenuti sinora, questo periodo di tempo appare alla mente tanto lungo, in confronto ai bisogni e alle impazienze dei popoli cristiani d’Oriente, da rendere vana la speranza che la questione intorno a cui s’affanna ora l’Europa si possa risolvere coll’incivilimento progressivo del popolo turco. Questa è l’opinione che mi son formata nel mio breve soggiorno a Costantinopoli. – O in che altro modo si può dunque risolvere la questione? Ah! signori, qui proprio non mi credo obbligato a rispondere, perché non potrei rispondere senz’aver l’aria di dar consigli all’Europa; e a questo si rifiuta inesorabilmente la mia modestia. E poi… l’ho già detto che v’è un bastimento austriaco che fuma sul Corno d’oro, in faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero; e il lettore lo sa dove deve passare, questo bastimento!


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.