Conversazione con Hadeel Azeez, l’artista irachena alla guida di un ideale

Hadeel Azeez nel suo studio a Roma

“Un’artista ha il dovere di essere alla guida di un ideale”
Oggi per Hadeel Azeez l’impegno è per libertà, intercultura, sostenibilità e protezione della terra e degli animali

Hadeel Azeez, WATER

In corso a Roma, a Spazio all’Arte, di Capitolium Art, in collaborazione con Blue Factory, la mostra personale di Hadeel Azeez, WATER, curata da Willy Zuco, inaugurata lo scorso 28 giugno e visitabile fino al 7 settembre 2023.

Una visuale della mostra

Finissage della mostra WATER alla presenza dell’Artista
Giovedì 7 settembre 2023 dalle 18,30

Visitabile anche su appuntamento

Spazio all’Arte – Via delle Mantellate 14b

Info: roma@capitoliumart.it

Hadeel Azeez, Willy Zuco, Zaid Tariq Al-Ani addetto culturale Ambasciata Iraq

Conversazione con l’artista

di Diana Daneluz

Come è nata questa mostra e cosa ha portato Hadeel Azeez al racconto, provocatorio, sull’acqua e la urgente necessità di preservarla?

Avevo incontrato Willy Zuco in occasione di una piccola mostra dal titolo Elementi Del Visibile che avevo organizzato lo scorso febbraio. Successivamente ad una sua visita al mio studio mi ha chiamato per proporre la mostra Water. Quando ci siamo incontrati per discutere questo tema è venuto fuori che abbiamo entrambi letto Il Miracolo Dell’Acqua di Masaru Emoto, in cui l’autore spiega attraverso l’analisi della molecola, che l’acqua conserva una memoria delle parole e del linguaggio. Questi generano un impatto sulla struttura molecolare dell’acqua e quindi il suo aspetto cambia a seconda del significato positivo o negativo della parola pronunciata. Una scoperta sensazionale, se pensiamo al potere di un elemento così basilare per la nostra esistenza.

Durante il tempo di creazione delle opere, questo libro è stato un riferimento importante per me, ma presto ho ampliato la visione per inglobare altri elementi legati all’acqua, come gli esseri viventi che ci abitano – dai microrganismi, ai giganti del mare come le balene, alle meduse che stanno popolando i mari per via dell’aumento della temperatura dell’acqua e della pesca intensiva.

Spesso noi umani guardiamo la nostra esistenza come qualcosa di superiore a quella degli altri esseri viventi. Non abbiamo una veduta così ampia da capire che l’universo è un tutt’uno legato con leggi impeccabili ed il crollo di un solo singolo elemento, minaccia l’intero sistema; la nostra esistenza è quella più fragile dell’ecosistema.

Nata in Iraq, vive a Roma. E da sempre sul fiume, il Tigri, prima, il Tevere poi. Quanto c’è dell’ambiente naturale e architettonico che La circonda nelle sue opere?

Penso che la presenza di questi elementi sia inevitabile nel mio lavoro. Se non in modo esplicito lo è nella percezione. Come una nota musicale che doni armonia ed equilibrio ad un brano.

Sono nata a Baghdad ed è il posto della mia infanzia, a 22 anni sono venuta in Italia e ad oggi, dopo 20 anni, penso che il mio animo non conosce più una sola percezione di vita. Vedo le cose con tante sfaccettature e dimensioni. Le mie idee e decisioni sono influenzate da entrambe le culture al contempo. Dentro il mio pensiero, dentro le mie abitudini, nelle cose che amo e persino nelle persone che frequento c’è qualcosa che richiama entrambe le culture in modo diretto o indiretto. Questo si nota nel mio lavoro soprattutto nei movimenti e nei soggetti stessi. Questo sarebbe molto chiaro da vedere se uno pensasse e conoscesse il percorso che l’arte ha intrapreso in Medio Oriente, dagli antichi mesopotamici fino ad oggi. Un miscuglio di diverse cose, ma in una costruzione gentile.

Pianificare qualcosa che può accadere nel futuro mi è sempre stata difficile. Credo che questo sia dovuto alla cultura musulmana in cui sono nata, si affida l’avvenire alle mani di Dio.

Tornerebbe definitivamente, ha in animo di farlo, nella Sua città natale o ormai la Sua vita è qui?

L’idea di tornare a casa non è sradicata dalla mia mente, ma pianificare qualcosa che può accadere nel futuro mi è sempre stata difficile. Credo che questo sia dovuto alla cultura musulmana in cui sono nata, si affida l’avvenire alle mani di Dio. Forse questo pensiero esprime in qualche modo il concetto del vivere qui ed ora. Pianificare il futuro spesso ci mette in uno stato di ansia e ci fa sentire inadeguati nel nostro momento presente, cosa che non accadrebbe se guardassimo al nostro futuro come qualcosa che non è ancora nostro. Vorrei non pianificare mai nulla per il futuro: dove sarò, dove vivrò, sarà sicuramente una sorpresa che avrà il suo sentimento nel suo futuro momento.

Qual è il contributo che sente di dare oggi l’esigenza irrinunciabile di un dialogo interculturale autentico?

Penso che una delle più grandi perdite dell’umanità sia quella di aver creato confini sulla mappa del mondo. Quanti conflitti avremmo potuto evitare, quante cose ci siamo persi, quante ricchezze spirituali e culturali e non solo avremmo potuto imparare solo se non ci fosse stata l’idea del diverso e dello sconosciuto.

Direi che ancora oggi, nonostante si viaggi più facilmente per vedere e conoscere, restiamo chiusi nelle nostre idee giudicando colui che è diverso da noi, mettendolo sempre ad una certa distanza. Si creano delle società magari multiculturali, ma con piccole comunità sparse in cui l’artista, il medico, l’ingegnere è discriminato perché ha un colore di pelle diverso o un accento nel suo parlato…

L’idea dell’uomo moderno è quella di essere il migliore, di vivere seguendo canoni che considera giusti. Per questo abbiamo creato delle società unidimensionali in cui si sparge odio verso colui che è diverso. Guerre infinite e sfruttamento di ogni genere. Questo è stato il nostro modo di fare affari e progredire.

Penso che l’artista abbia, oggi più che in altri tempi, il dovere di mettersi alla guida di un ideale. Come dice il filosofo e scienziato Terence Mckenna, se l’artista non trova la via, allora la via non può essere trovata.

La sua sperimentazione artistica, all’inizio tradizionalmente pittorica, ha subito una decisa deviazione verso l’uso della penna a sfera, il che rimanda alla scrittura. Quando è successo e cosa ha innescato il cambiamento?

In realtà non lo vivo come un cambiamento, ma come un ritorno a qualcosa che avevo trascurato per studiare i metodi accademici della pittura. Dopo diversi anni e durante un periodo di blocco verso la pittura, l’uso della penna a sfera è riaffiorato. Penso per via della sua semplicità, (una penna ed un foglio ed il tempo che si ferma mentre la mia mente si riposa gettando fuori ogni pensiero e sentimento). Ben presto questo mezzo mi ha mostrato una potenzialità degna di qualsiasi altra materia in termini tecnici di chiaroscuro e sfumatura. Ho raggiunto una tecnica che mi permette di realizzare qualsiasi cosa con molta precisione.

Per la mostra Water ho cambiato l’aspetto del mio lavoro in termini di dimensioni creando opere di grande formato, dopo un lungo tempo in cui realizzavo opere di piccole dimensioni. Inoltre, ho realizzato tre opere appositamente per il video intitolato The Three Waves usando la tecnologia dell’immagine in movimento.

Credo che la materia sia solo un mezzo e quello che veramente conta alla fine è l’idea, il pensiero ed il sentimento che l’artista trasmette.

Se dovesse fare il nome, è sempre difficile, di uno o una artista di cui sente di aver subito l’influenza, chi sarebbe?

A questa domanda risponderei con una lista di nomi per ogni periodo della mia vita. Ma se ci penso bene forse Hanaa Malallah, un’artista irachena che ho sempre guardato con ammirazione: il suo lavoro è presente nei più importanti musei del mondo, la sua arte è ricca, ti stupisce e ti colpisce nel profondo. Forse dentro di me sto cercando di trasmettere qualcosa di simile. Qualcosa che sia intimo, ma anche universale.

La stratificazione plurisecolare della storia dell’arte mette un peso sulle spalle degli artisti di oggi, probabilmente questo è il motivo per cui l’arte contemporanea in Italia non è tanto amata.

Cosa pensa della veicolazione e distribuzione dell’arte in Italia, e in particolare qui a Roma?

Dovrei azzardare un’analisi molto personale… Trovo che in generale il sistema dell’arte sia molto complicato. Nella mia piccola esperienza noto che la scena artistica contemporanea in Italia soffre di qualche rallentamento. La stratificazione plurisecolare della storia dell’arte mette un peso sulle spalle degli artisti di oggi, probabilmente questo è il motivo per cui l’arte contemporanea in Italia non è tanto amata. Le gallerie dedicate all’arte contemporanea non sono tantissime, il collezionismo dell’arte contemporanea ancora esita a decollare.

A Roma non credo che la situazione faccia una particolare eccezione, un artista deve armarsi di molto coraggio e tanta tenacia per farsi strada.

In Water, in ragione del tema, dominano, accanto al bianco e nero dell’inchiostro, solo dei bellissimi toni di blu. Più in generale, qual è il Suo rapporto con il colore?

Spesso si pensa che gli artisti usino un determinato colore per una scelta sentimentale, forse qualche volta è così, ma la maggior parte delle volte è il soggetto che implica l’uso di un colore. I colori hanno una profondità prospettica ed una temperatura cromatica e usarli senza badare ai loro canoni fisici sarebbe un errore. Questo concetto ovviamente vale sia per l’arte figurativa sia per l’arte astratta ed io come tanti artisti navigo in entrambi gli stili. Nell’arte figurativa, il pittore è obbligato a riportare fedelmente i colori del soggetto, mentre nell’arte astratta l’artista deve scegliere accuratamente i suoi colori per trasmettere al meglio la propria idea. L’accostamento dei colori è una scelta implicata dalla struttura fisica e chimica dei colori stessi.

In Water, l’uso del colore blu con qualche sfumatura di verde era obbligato poiché viene attribuito alla materia dell’acqua, sicuramente per via del riflesso del cielo azzurro sul mare. Ma sappiamo bene che l’acqua è incolore ed è per questo che anche il bianco è protagonista nella mostra, non solo nello spazio bianco della carta, ma anche nell’uso dello smalto bianco leggermente in rilievo visibile solo sotto una luce in una determinata angolazione.

Dal colore al movimento. Quello delle opere esposte in WATER è implicitamente sensuale, nato da un tratto sinuoso fortemente coinvolgente. Può dirsi il Suo stile? 

Se si percepisce come tale è sicuramente qualcosa che ha a che fare con le mie radici, in particolare la lingua araba: essa scorre senza la presenza del maiuscolo che spezza le sue linee curve e la obbliga ad un aspetto geometrico, tranne per alcuni stili calligrafici.

Per quanto riguarda in particolare le opere in Water, oltre alla natura fluida dell’acqua, ho passato molto tempo a studiare diverse specie di pesci la cui struttura fisica si avvicina a quella sensualità citata nella domanda. Nel mio lavoro c’è sempre la presenza di animali di diverse specie, ma che rappresento in modo da creare una specie inesistente. Come gli esseri fantastici che gli antichi sognavano per costruire le loro storie e persino le religioni.

Sono figlia di una delle più antiche civiltà mai creata dall’uomo, la Mesopotamia. Vivo in una civiltà moderna da cui il mio stile è inevitabilmente influenzato, ma il mio spirito porta strati di storia ed è amalgamato con la terra in cui sono nata.

Quando non è imbrigliata in un tema specifico, cosa c’è alla radice della Sua arte? Quali emozioni o quali “messaggi” Le viene naturale estrinsecare?

Sicuramente lavorare con un tema specifico è una buona abitudine per un’artista, ma nel caso in cui mi manchi l’ispirazione, lavoro alla ricerca di qualche cosa che mi suggerisce un tema sul quale poi continuo sviluppando diverse opere.

Le tematiche, i messaggi che mi vengono naturali, come citavo prima, sono legati ad un mondo che unisce gli esseri viventi in un unico aspetto. Di recente ho creato diverse opere sul tema della libertà, questo progetto è nato da un periodo in cui avevo letto diversi libri sul tema degli uccelli ed il loro significato. Sono stata influenzata da tre grandi libri che avevo letto in quel periodo; il primo che mi ha fatto molto riflettere sulla provenienza delle mie immagini ed il legame visivo con dell’eredità culturale della mia terra d’origine: Si tratta di Il Libro Degli Esseri Immaginari di J.L. Borges in cui descrive ed elenca le strane entità create dagli uomini antichi. Il secondo libro è stato Epistola Dell’Albero E Dei Quattro Uccelli del grande filosofo Sufi Ibn Arabi. Il terzo libro è Il Verbo Degli Uccelli di Farid Addin Attar. Questi grandi interpreti hanno aperto un varco nella mia mente per riflettere non solo sulla mia arte, ma anche sulla mia storia personale e alle diverse tappe della mia vita.

Verso cosa vede dirigersi il Suo percorso artistico nel futuro più prossimo?

In questo momento sono molto presa dall’idea di portare il lavoro sul discorso della sostenibilità, la protezione della terra e degli animali. Penso che dobbiamo essere molto responsabili e trattare questi argomenti con estrema serietà.

Nella mostra Water ho avuto l’idea di inserire il vetro sintetico su un’opera, non solo per un aspetto estetico, ma per fare riferimento all’inquinamento e ai rifiuti soprattutto industriali che costituiscono una vera minaccia per la sopravvivenza di tante specie di animali e vegetali. Prima ho citato l’aumento delle meduse nei mari – una vera e propria esplosione di questi organismi. I dati confermano un aumento delle meduse di almeno 10 volte negli ultimi 10 anni. Questo sicuramente avrà degli effetti enormi su diversi aspetti della nostra vita. Transparency è l’opera dedicata a questo fenomeno.

HADEEL AZEEZ

Una delle opere di Hadeel Azeez in mostra

HADEEL AZEEZ – Artista visiva italo irachena nata a Baghdad, frequenta lì l’Accademia di Belle Arti per poi trasferirsi in Italia nel 2003. Molteplici le sue attività espositive, in molte delle quali si registra l’accostamento di iconografia e scrittura. Una personale del 2013 presso l’Ambasciata irachena a Roma, Sensi, accoglieva un importante corpus delle sue opere. Seguno diverse mostre sempre a Roma, contestuali ad una ricerca appassionata, in cui il suo stile muta, evolve, dando origine a un nuovo linguaggio segnico fatto di infiniti filamenti sinuosi, realizzati prevalentemente con l’inchiostro nero della penna a sfera, che generano masse informi di straordinaria potenza espressiva.  Convinta sostenitrice del dialogo interculturale, prende parte a progetti sperimentali quali il Matri Archivio del Mediterraneo. Grafie e Materie (M.A.M.), una piattaforma digitale finalizzata a conservare la memoria di artiste emergenti, operanti nell’area del Mediterraneo, e a diversi spettacoli teatrali.  Nel 2022 a Palermo la mostra personale “Le figure segrete dietro ogni parola”, le cui opere entreranno nella collezione della Fondazione Orestiadi nell’ottobre dello stesso anno dove saranno esposte nel Museo delle Trame del Mediterraneo. A dicembre 2022 riceve il Franco Cuomo International Award per l’arte. A giugno 2023 realizza 11 opere tra cui tre destinate a diventare un video animazione e un’opera con un meccanismo di rotazione dal titolo Gratitude, per essere esposte nella mostra personale WATER.

Opere di Hadeel Azeez in mostra

Le mostre dell’autunno di ARTHEMISIA: Monet a Madrid

“MONET. CAPOLAVORI DAL MUSÉE MARMOTTAN MONET DI PARIGI”

21 settembre 2023 – 25 febbraio 2024
CentroCentro, Madrid

La prima grande mostra di Monet a Madrid.

Oltre cinquanta capolavori del padre dell’Impressionismo, provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, saranno esposti al CentroCentro di Madrid
per quello che si annuncia come uno dei grandi eventi culturali dell’autunno 2023 in Spagna.
Arthemisia, azienda leader nelle grandi mostre internazionali, torna a Madrid, insieme al Comune, con una grandissima esposizione.

PREVENDITE APERTE SU

Dal 21 settembre, il CentroCentro dedica una mostra al padre dell’Impressionismo, Claude Monet.
Oltre 50 capolavori di Monet, provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, racconteranno l’intera parabola artistica del Maestro impressionista, letta attraverso le opere a cui Monet teneva di più, le “sue” opere, quelle che lui stesso ha conservato gelosamente nella sua casa di Giverny fino alla morte, quelle da cui non ha mai voluto separarsi, tra cui le famosissime ed iconiche Ninfee.

Il Musée Marmottan Monet possiede il nucleo più importante e numeroso delle opere del grandissimo artista francese, frutto di una generosa donazione di Michel, suo figlio, avvenuta nel 1966.

Per la mostra di Madrid, il museo presterà opere eccezionali come Ritratto di Michel Monet con cappello a pompon (1880), Il treno nella neve. La locomotiva (1875) e Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi (1905), insieme a dipinti di grande formato come le affascinanti Ninfee (1917-1920) e gli evanescenti Glicini (1919-1920).

La mostra, organizzata dal CentroCentro – parte del Dipartimento Cultura, Turismo e Sport del Comune di Madrid – e da Arthemisia in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi, è ideata da Sylvie Carlier, curatrice generale e conservatrice del Musée Marmottan Monet, e dalle co-curatrici Marianne Mathieu, storica dell’arte, e Aurélie Gavoille, assistente alla curatela del Musée Marmottan Monet.


Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

2- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Cinque ore dopo

2- Cinque ore dopo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli tutta luce e tutta bellezza è una città mostruosa, sparpagliata per un saliscendi infinito di colline e di valli; è un labirinto di formicai umani, di cimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta di civiltà e di barbarie, che presenta un’immagine di tutte le città della terra e raccoglie in sé tutti gli aspetti della vita umana. Non ha veramente di una grande città che lo scheletro, che è la piccola parte in muratura; il resto è un enorme agglomeramento di baracche, uno sterminato accampamento asiatico, in cui brulica una popolazione che non fu mai numerata, di gente d’ogni razza e d’ogni religione. È una grande città in trasformazione, composta di città vecchie che si sfasciano, di città nuove sorte ieri, d’altre città che stanno sorgendo. Tutto v’è sossopra; da ogni parte si vedono le tracce d’un gigantesco lavoro: monti traforati, colli sfiancati, borghi rasi al suolo, grandi strade disegnate; un immenso sparpagliamento di macerie e d’avanzi d’incendi sopra un terreno perpetuamente tormentato dalla mano dell’uomo. È un disordine, una confusione d’aspetti disparati, un succedersi continuo di vedute imprevedibili e strane, che dà il capogiro. Andate in fondo a una strada signorile, è chiusa da un burrone; uscite dal teatro, vi trovate in mezzo alle tombe; giungete sulla sommità d’una collina, vi vedete un bosco sotto i piedi, e un’altra città sulla collina in faccia; il borgo che avete attraversato poc’anzi, lo vedete, voltandovi improvvisamente, in fondo a una valle profonda, mezzo nascosto dagli alberi; svoltate intorno a una casa, ecco un porto; scendete per una strada, addio città! siete in una gola deserta, da cui non si vede altro che cielo; le città spuntano, si nascondono, balzan fuori continuamente sul vostro capo, ai vostri piedi, alle vostre spalle, vicine e lontane, al sole, nell’ombra, fra i boschi, sul mare; fate un passo avanti, vedete un panorama immenso; fate un passo indietro, non vedete più nulla; alzate il capo, mille punte di minareti; scendete d’un palmo, spariscon tutti e mille. Le strade, infinitamente reticolate, serpeggiano fra i poggi, corrono su terrapieni, rasentano precipizi, passano sotto gli acquedotti, si rompono in vicoli, discendono in gradinate, in mezzo ai cespugli, alle rocce, alle rovine, alle sabbie. Di tratto in tratto, la gran città piglia come un respiro nella solitudine della campagna, e poi ricomincia più fitta, più colorita, più allegra; qui pianeggia, là s’arrampica, più in là precipita, si disperde e poi si riaffolla; in un luogo fuma e strepita, in un altro dorme; in una parte rosseggia tutta, in un’altra parte è tutta bianca, in una terza vi domina il color d’oro, una quarta presenta l’aspetto d’un monte di fiori. La città elegante, il villaggio, la campagna, il giardino, il porto, il deserto, il mercato, la necropoli, si alternano senza fine innalzandosi l’uno sull’altro, a scaglioni, in modo che da certe alture si abbracciano con uno sguardo solo, sopra una sola china, tutte le varietà d’una provincia. Un’infinità di contorni bizzarri si disegna da ogni parte sul cielo e sulle acque, così fitti, così pazzamente spezzettati e dentellati dalla meravigliosa varietà delle architetture, che si confondono agli occhi come se tremolassero e s’intricassero gli uni con gli altri. In mezzo alle casette turche si alza il palazzo europeo; dietro il minareto, il campanile; sopra la terrazza, la cupola; dietro la cupola, il muro merlato; i tetti alla cinese dei chioschi sopra i frontoni dei teatri, i balconi ingraticolati degli arem di rimpetto ai finestroni a vetrate, le finestrine moresche in faccia ai terrazzi a balaustri, le nicchie delle madonne sotto gli archetti arabi, i sepolcri nei cortili, le torri fra i tuguri; le moschee, le sinagoghe, le chiese greche, le cattoliche, le armene, le une sulle altre, come se facessero a soverchiarsi, e in tutti i vani, cipressi, pini a ombrello, fichi e platani che stendono i rami sopra i tetti. Una indescrivibile architettura di ripiego asseconda gli infiniti capricci del terreno con un tritume di case tagliate a spicchi, in forma di torri triangolari, di piramidi diritte e rovesciate, circondate di ponti, di puntelli e di fossi, ammucchiate alla rinfusa, come massi franati da una montagna. A ogni cento passi tutto muta. Qui siete in una strada d’un sobborgo di Marsiglia; svoltate: è un villaggio asiatico; tornate a svoltare: è un quartiere greco; svoltate ancora: è un sobborgo di Trebisonda. Alla lingua, ai visi, all’aspetto delle case riconoscete di aver cangiato di stato; sono spicchi di Francia, strisce d’Italia, screziature d’Inghilterra, innesti di Russia. Sulla immensa faccia della città si vede rappresentata ad architetture e a colori la grande lotta che si combatte fra la famiglia cristiana che riconquista e la famiglia islamitica che difende con le ultime sue forze la terra sacra. Stambul, una volta tutta turca, è assalita da ogni parte da quartieri cristiani, che la rodono lentamente lungo la sponda del Corno d’oro e del Mar di Marmara; dall’altra parte la conquista procede in furia: le chiese, i palazzi, gli ospedali, i giardini pubblici, gli opifici, le scuole squarciano i quartieri musulmani, soverchiano i cimiteri, si avanzano di collina in collina, e già disegnano vagamente sul terreno sconvolto la forma d’una grande città che un giorno coprirà la riva europea del Bosforo come quella d’ora copre le rive del Corno d’oro. Ma da queste osservazioni generali distraggono ad ogni passo mille cose nuove: in una via il convento dei dervis, in un’altra la caserma di stile moresco, il caffè turco, il bazar, la fontana, l’acquedotto. In un quarto d’ora bisogna cangiar dieci volte d’andatura: scendere, arrampicarsi, saltellar giù per una china, salire per una scalinata di macigni, affondar nella mota e scansar mille ostacoli, aprendosi la via ora tra la folla, ora tra gli arbusti, ora tra i cenci appesi, ora turandosi il naso, ora aspirando ondate d’aria odorosa. Dalla gran luce d’un sito aperto, donde si vede il Bosforo, l’Asia e un cielo infinito, si cala con pochi passi nell’oscurità triste d’una rete di vicoli fiancheggiati da case cadenti ed irti di sassi come letti di ruscelli; da un verde fresco e ombroso, in un polverio soffocante, saettato dal sole; da crocicchi pieni di rumore e di colori, in recessi sepolcrali, dove non è mai sonata una voce umana; dal divino Oriente dei nostri sogni, in un altro Oriente lugubre, immondo, decrepito che supera ogni più nera immaginazione. Dopo un giro di poche ore non si sa più dove s’abbia la testa. A chi ci domandasse improvvisamente che cos’è Costantinopoli, non si saprebbe rispondere che mettendosi una mano sulla fronte per quietare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli è una Babilonia, un mondo, un caos. È bella? Prodigiosa. È brutta? Orrenda. Vi piace? Ubriaca. Ci stareste? Chi lo sa! Chi può dire che starebbe in un altro astro? Si ritorna a casa pieni d’entusiasmo e di disinganni, rapiti, stomacati, abbarbagliati, storditi, con un disordine nella mente che somiglia al principio d’una congestione cerebrale, e che si quieta poi a poco a poco in una prostrazione profonda e in un tedio mortale. Si son vissuti parecchi anni in fretta, e ci si sente invecchiati.
E la popolazione di questa città mostruosa?


Edmondo De Amicis
Leggi su Wikipedia

Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

1- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: L’arrivo

Edmondo De Amicis
Leggi su Wikipedia

Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.


1- L’arrivo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio azzurro e immobile come un lago, i monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del sole, l’Arcipelago dorato dal tramonto, le rovine d’Atene, il golfo di Salonico, Lemno, Tenedo, i Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio, si sbiadirono per modo nella mente, dopo visto il Corno d’oro, che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d’immaginazione che di memoria. Perché la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda dall’anima, debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all’alba vedremo i primi minareti di Stambul.
Ah! ella sorride, mio buon lettore, pieno di quattrini e di noia; ella che, anni sono, quando le saltò il ticchio d’andare a Costantinopoli, in ventiquattr’ore rifornì la borsa e fece le valigie, e partì tranquillamente come per una gita in campagna, incerto fino all’ultimo momento se non fosse meglio prendere invece la via di Baden-Baden! Se il capitano del bastimento ha detto anche a lei: – Domani mattina vedremo Stambul – lei avrà risposto flemmaticamente: – Ne ho piacere. – Ma bisogna aver covato quel desiderio per dieci anni, aver passato molte sere d’inverno guardando melanconicamente la carta d’Oriente, essersi rinfocolata l’immaginazione colla lettura di cento volumi, aver girato mezza l’Europa soltanto per consolarsi di non poter vedere quell’altra mezza, essere stati inchiodati un anno a tavolino con quell’unico scopo, aver fatto mille piccoli sacrifici, e conti su conti, e castelli su castelli, e battagliole in casa; bisogna infine aver passato nove notti insonni sul mare, con quell’immagine immensa e luminosa davanti agli occhi, felici tanto da provar quasi un sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa; e allora si capisce che cosa voglion dire quelle parole: – Domani all’alba vedremo i primi minareti di Stambul; – e invece di rispondere flemmaticamente: – ne ho piacere – si picchia un pugno formidabile sul parapetto del bastimento.
Un gran piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli, infatti, non ci son dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di meraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati là, perdono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana è impotente, il Pouqueville crede d’esser rapito in un altro mondo, il La Croix è innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamartine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che vede; e tutti accumulano immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano invano per trovare un’espressione che non riesca miseramente al disotto del proprio pensiero. Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli con un’apparenza di tranquillità d’animo che reca stupore; ma non tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo; e se la celebre Lady Montague, pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l’abbia fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale si dava molto pensiero. C’è persino un freddo tedesco, il quale dice che le più belle illusioni della gioventù e i sogni stessi del primo amore sono pallide immagini in confronto del senso di dolcezza che invade l’anima alla vista di quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che fa Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il ribollimento che dovevano produrre tutte queste parole di foco, cento volte ripetute, nel cervello d’un bravo pittore di ventiquattr’anni, e in quello d’un cattivo poeta di vent’otto! Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e cercavamo le testimonianze dei marinai. E anch’essi, povera gente rozza, per dare un’idea di quella bellezza, sentivano il bisogno d’esprimersi con qualche similitudine o parola straordinaria, e la cercavano volgendo gli occhi qua e là e stropicciando le dita, e facevano dei tentativi di descrizione con quel suono di voce che par che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui la gente del popolo esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. – Entrare con una bella mattinata in Costantinopoli –, ci disse il capo dei timonieri –, credete a me, signori: è un bel momento nella vita d’un uomo.
Anche il tempo ci sorrideva; era una notte serena e tepida; il mare accarezzava con un mormorìo leggerissimo i fianchi del bastimento; gli alberi e i più minuti cordami si disegnavano netti ed immobili sul cielo coperto di stelle; non pareva nemmeno che si navigasse. A prora v’era una folla di turchi sdraiati che fumavano beatamente il loro narghilè col viso rivolto alla luna, la quale faceva un contorno d’argento ai loro turbanti bianchi; a poppa un visibilio di gente d’ogni paese, fra cui una compagnia famelica di commedianti greci che s’erano imbarcati al Pireo. Vedo ancora, in mezzo a una nidiata di bambine russe che vanno a Odessa con la madre, il visetto della piccola Olga, tutta meravigliata ch’io non capisca la sua lingua e indispettita d’avermi fatto tre volte la medesima domanda senza ottenere una risposta intelligibile. Ho da una parte un grosso e sucido prete greco, col cappello a staio rovesciato, che cerca col cannocchiale l’arcipelago di Marmara; dall’altra un ministro evangelico inglese, rigido e freddo come una statua, che in tre giorni non ha ancora detto una parola né guardato in faccia anima viva; davanti, due belle signorine ateniesi colla berrettina rossa e le trecce giù per le spalle, che appena uno le guarda, si voltano tutte due insieme verso il mare per farsi vedere di profilo; un po’ più in là un negoziante armeno che fa scorrere tra le dita le pallottoline del rosario orientale, un gruppo d’ebrei vestiti del costume antico, degli albanesi colle sottanine bianche, un’istitutrice francese che fa la malinconica, qualcuno di quei soliti viaggiatori di nessuna tinta, che non si capisce di che paese siano nè che mestiere facciano; e in mezzo a questa gente, una piccola famiglia turca composta d’un babbo in fez, d’una mamma velata e di due bambine coi calzoncini, tutti e quattro accovacciati sotto una tenda, a traverso un mucchio di materasse e di cuscinetti variopinti, in mezzo a una corona di carabattole d’ogni forma e d’ogni colore.
Come si sentiva la vicinanza di Costantinopoli! C’era una vivacità insolita. Quasi tutti i visi, che s’intravvedevano al lume delle lanterne, erano visi allegri. Le bambine russe saltellavano intorno alla madre gridando l’antico nome russo di Stambul: – Zavegorod! Zavegorod! – Passando accanto ai crocchi, si udivano qua e là i nomi di Galata, di Pera, di Scutari, di Bujukderé, di Terapia, che luccicavano alla mia fantasia come le prime scintille d’un grande foco d’artifizio sul punto d’accendersi. Anche i marinai erano contenti d’avvicinarsi a quel luogo dove, com’essi dicevano, si dimenticano almeno per un’ora tutte le noie della vita. Persino a prora, in mezzo a quel biancume di turbanti, c’era un movimento straordinario: anche quei mussulmani pigri e impassibili vedevano già cogli occhi della immaginazione ondulare all’orizzonte i fantastici contorni di Ummelunià, la madre del mondo, «la città», come dice il Corano, «di cui un lato guarda la terra e due guardano il mare.» Pareva che il bastimento, anche senza la forza motrice del vapore, avrebbe dovuto andare innanzi da sé, spinto dall’impeto dei desideri e delle impazienze che fremevano sulle sue tavole. Di tratto in tratto mi appoggiavo al parapetto per guardare in mare, e mi pareva che cento voci confuse mi parlassero col mormorio delle acque. Erano tutte le persone che mi amano, che dicevano: Va, va, figliuolo, fratello, amico, va; va a goderti la tua Costantinopoli; te la sei guadagnata, sii felice, e Dio t’accompagni.
Soltanto verso la mezzanotte i viaggiatori cominciarono a scendere sottocoperta. Il mio amico ed io scendemmo gli ultimi e a passo di formica, perché ci ripugnava d’andare a chiudere fra quattro pareti un’allegrezza a cui pareva angusto il circuito della Propontide. Quando fummo a metà della scaletta sentimmo la voce del capitano che ci invitava a salire la mattina seguente sul ponte riserbato al comando. – Siano su prima del levar del sole, – gridò affacciandosi alla botola –; faccio buttare in mare chi ritarda.
Una minaccia più superflua non è mai stata fatta dopo che mondo è mondo. Io non chiusi occhio. Credo che il giovane Maometto II, in quella famosa notte di Adrianopoli, in cui disfece il letto a furia di voltarsi e di rivoltarsi, agitato dalla visione della città di Costantino, non abbia fatto tanti rivoltoloni quanti ne feci io nella mia cuccetta in quelle quattr’ore d’aspettazione. Per dominare i miei nervi, provai a contare fino a mille, a tener l’occhio fisso sulle ghirlande bianche che l’acqua rotta dal bastimento sollevava intorno all’occhio del mio camerino, a canterellare delle ariette cadenzate sul rumore monotono della macchina a vapore; ma era inutile. Avevo la febbre, mi sentivo mancare il respiro e la notte mi pareva eterna. Appena vidi un barlume di giorno, saltai giù; Yunk era già in piedi; ci vestimmo in furia, e salimmo in tre salti sopra coperta.
Maledizione!
C’era la nebbia.
Una nebbia fitta copriva l’orizzonte da tutte le parti; pareva imminente la pioggia; il
grande spettacolo dell’entrata in Costantinopoli era perduto; il nostro più ardente desiderio, deluso; il viaggio in una parola, sciupato!
Io rimasi annichilito.
In quel punto comparve il capitano col suo solito sorrisetto sulle labbra.
Non ci fu bisogno di parlare; appena ci vide, capì, e battendoci una mano sulla spalla,
disse in tuono di consolazione:
– Niente, niente. Non si sgomentino, signori. Benedicano anzi questa nebbia. In grazia
della nebbia loro faranno la più bella entrata in Costantinopoli che abbiano mai potuto desiderare. Fra due ore avremo un sereno meraviglioso. Riposino sulla mia parola.
Mi sentii tornare la vita.
Salimmo sul ponte del Comando.
A prora tutti i turchi erano già seduti a gambe incrociate sui loro tappeti, col viso
rivolto verso Costantinopoli. In pochi minuti tutti gli altri viaggiatori usciron fuori, armati di cannocchiali d’ogni forma, e si appoggiarono, stesi in una lunga fila, al parapetto di sinistra, come alla balaustrata d’una galleria di teatro. Tirava un’arietta fresca; nessuno parlava. Tutti gli occhi e tutti i cannocchiali si rivolsero a poco a poco verso la riva settentrionale del mare di Marmara. Ma non si vedeva ancor nulla.
La nebbia però non formava che una fascia biancastra all’orizzonte, sopra la quale splendeva il cielo sereno e dorato.
Diritto dinanzi a noi, nella direzione della prora, appariva confusamente il piccolo arcipelago delle nove Isole dei Principi, le Demonesi degli antichi, luogo di piaceri della Corte al tempo del Basso Impero, ed ora luogo di ritrovo e di festa degli abitanti di Costantinopoli.
Le due rive del mar di Marmara erano ancora completamente nascoste.
Soltanto dopo un’ora che s’era sul ponte si vide…
Ma è impossibile intender bene la descrizione dell’entrata in Costantinopoli, se non si
ha chiara nella mente la configurazione della città. Supponga il lettore d’aver davanti a sè l’imboccatura del Bosforo, il braccio di mare che separa l’Asia dall’Europa e congiunge il mar di Marmara col mar Nero. Stando così s’ha la riva asiatica a destra e la riva europea a sinistra; di qui l’antica Tracia, di là l’antica Anatolia. Andando innanzi, infilando cioè il braccio di mare, si trova a sinistra, appena oltrepassata l’imboccatura, un golfo, una rada strettissima, la quale forma col Bosforo un angolo quasi retto, e si sprofonda per parecchie miglia nella terra europea, incurvandosi a modo di un corno di bue; donde il nome di Corno d’oro, ossia corno dell’abbondanza, perché v’affluivano, quand’era porto di Bisanzio, le ricchezze di tre continenti. Nell’angolo di terra europea, che da una parte è bagnato dal mar di Marmara e dall’altra dal Corno d’oro, dov’era l’antica Bisanzio, s’innalza, sopra sette colline, Stambul, la città turca. Nell’altro angolo, bagnato dal Corno d’oro e dal Bosforo, s’innalzano Galata e Pera, le città franche. In faccia all’apertura del Corno d’oro, sopra le colline della riva asiatica, sorge la città di Scutari. Quella, dunque, che si chiama Costantinopoli, è formata da tre grandi città divise dal mare, ma poste l’una in faccia all’altra, e la terza in faccia alle due prime, e tanto vicine tra loro, che da ciascuna delle tre rive si vedono distintamente gli edifizi delle altre due, presso a poco come da una parte all’altra della Senna e del Tamigi nei punti dove sono più larghi a Parigi e a Londra. La punta del triangolo su cui s’innalza Stambul, ritorta verso il Corno d’oro, è quel famoso Capo del Serraglio, il quale nasconde fino all’ultimo momento, agli occhi di chi viene dal mar di Marmara, la vista delle due rive del Corno, ossia la parte più grande e più bella di Costantinopoli.
Fu il Capitano del bastimento, che col suo occhio di marinaio scoperse per il primo il primo barlume di Stambul.
Le due signore ateniesi, la famiglia russa, il ministro inglese, Yunk, io ed altri, che andavamo tutti a Costantinopoli per la prima volta, stavamo intorno a lui stretti in un gruppo, silenziosi, stancandoci gli occhi inutilmente sopra la nebbia, quand’egli stese il braccio a sinistra, verso la riva europea, e gridò: – Signori, ecco il primo spiraglio.
Era un punto bianco, la sommità d’un minareto altissimo, di cui la parte di sotto rimaneva ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i cannocchiali e si misero a frugare cogli occhi in quel piccolo squarcio della nebbia come per farlo più largo. Il bastimento filava rapidamente. Dopo pochi minuti, si vide accanto al minareto una macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco a poco prendevano il contorno di case, e la fila s’allungava, s’allungava. Dinanzi a noi e sulla nostra destra, tutto era ancora coperto dalla nebbia. Quella che s’andava scoprendo allora, era la parte di Stambul che s’allunga, formando un arco di circa quattro miglia italiane, sulla riva settentrionale del mar di Marmara, fra il Capo del Serraglio e il Castello delle Sette Torri. Ma tutta la collina del Serraglio era ancora velata. Dietro le case spuntavano l’un dopo l’altro i minareti, altissimi e bianchi, e le loro sommità, illuminate dal sole, erano color di rosa. Sotto le case cominciavano a scoprirsi le vecchie mura merlate, di color fosco, rafforzate, a distanze eguali, da grosse torri, che formano intorno a tutta la città una cintura non interrotta, contro la quale si rompono le onde del mare. In poco tempo rimase scoperto un tratto di città lungo due miglia; ma, dico il vero, lo spettacolo non corrispondeva alla mia aspettazione. Eravamo nel punto in cui il Lamartine domandò a sè stesso: – È questa Costantinopoli? – e gridò: – Che delusione! – Le colline erano ancora nascoste, non si vedeva che la riva, le case formavano una sola fila lunghissima, la città pareva tutta piana. – Capitano! – esclamai anch’io –; è questa Costantinopoli? – Il capitano m’afferrò per un braccio, e accennando colla mano dinanzi a sé: – Uomo di poca fede! – gridò –; guardi lassù. – Guardai! e mi fuggì un’esclamazione di stupore. Un’ombra enorme, una mole altissima e leggiera, ancora coperta da un velo vaporoso, si sollevava al cielo dalla sommità d’un’altura, e rotondeggiava gloriosamente nell’aria, in mezzo a quattro minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate scintillavano ai primi raggi del sole. – Santa Sofia! – gridò un marinaio; e una delle due signore ateniesi disse a bassa voce: – Hagia Sofia! (La santa sapienza). I turchi a prora s’alzarono in piedi. Ma già dinanzi e accanto alla grande basilica, si sbozzavano a traverso la nebbia altre cupole enormi, e minareti fitti e confusi come una foresta di gigantesche palme senza rami – La moschea del Sultano Ahmed! – gridava il capitano, accennando –; la moschea di Bajazet, la moschea d’Osman, la moschea di Laleli, la moschea di Solimano. Ma nessuno lo sentiva più. Il velo si squarciava rapidamente, e da ogni parte balzavan fuori moschee, torri, mucchi di verzura, case su case; e più andavamo innanzi, più la città s’alzava e mostrava più distinti i suoi grandi contorni rotti, capricciosi, bianchi, verdi, rosati, scintillanti; e la collina del serraglio disegnava già intera la sua forma gentile sopra il fondo grigio della nebbia lontana. Quattro miglia di città, tutta la parte di Stambul che guarda il mare di Marmara, si stendeva dinanzi a noi, e le sue mura fosche e le sue case di mille colori si riflettevano nell’acqua terse e nitide come in uno specchio.
A un tratto il bastimento si fermò.
Tutti s’affollarono intorno al capitano domandando perché. Egli ci spiegò che per andare innanzi bisognava aspettare che svanisse la nebbia. La nebbia, infatti, nascondeva ancora l’imboccatura del Bosforo come una fitta cortina. Ma dopo meno d’un minuto, si poté proseguire, andando però cautissimamente.
Ci avvicinavamo alla collina dell’antico serraglio.
Qui la curiosità mia e di tutti diventò febbrile.
– Si volti in là –, mi disse il capitano – e aspetti a guardare quando tutta la collina ci sia
davanti.
Mi voltai e fissai gli occhi sopra uno sgabello che mi pareva che ballasse.
– Eccoci! – esclamò il Capitano dopo qualche momento.
Mi voltai. Il bastimento s’era fermato.
Eravamo in faccia alla collina, vicinissimi.
È una grande collina tutta vestita di cipressi, di terebinti, d’abeti e di platani
giganteschi, che spingono i rami fuori delle mura merlate fino a far ombra sul mare; e in mezzo a questo mucchio di verzura s’alzano disordinatamente, separati e a gruppi, come sparsi a caso, cime di chioschi, padiglioncini coronati di gallerie, cupolette inargentate, piccoli edifizii di forme gentili e strane, colle finestre ingraticolate e le porte a rabeschi; tutto bianco, piccino, mezzo nascosto, che lascia indovinare un labirinto di giardini, di corridoi, di cortili, di recessi; un’intera città chiusa in un bosco; separata dal mondo, piena di mistero e di tristezza. In quel momento vi batteva su il sole, ma la ricopriva ancora un velo leggerissimo. Non vi si vedeva nessuno, non vi si sentiva il più leggiero rumore. Tutti i viaggiatori stavano là cogli occhi fissi su quel colle coronato dalle memorie di quattro secoli di gloria, di piaceri, d’amori, di congiure e di sangue; reggia, cittadella e tomba della grande monarchia ottomana; e nessuno parlava, nessuno si moveva. Quando a un tratto il secondo del bastimento gridò: – Signori, si vede Scutari!
Ci voltammo tutti verso la riva asiatica. Scutari, la Città d’oro, era là sparsa a perdita
d’occhi sulle sommità e per i fianchi delle sue grandi colline, velata dai vapori luminosi del mattino, ridente, fresca come una città sorta allora al tocco d’una verga fatata. Chi può descrivere quello spettacolo? Il linguaggio con cui descriviamo le città nostre non serve a dare una idea di quella immensa varietà di colori e di prospetti, di quella meravigliosa confusione di città e di paesaggio, di gaio e d’austero, d’europeo, d’orientale, di bizzarro, di gentile, di grande! S’immagini una città composta di diecimila villette gialle e purpuree, e di diecimila giardini lussureggianti di verde, in mezzo a cui s’alzano cento moschee candide come la neve; di sopra, una foresta di cipressi enormi: il più grande cimitero dell’Oriente; alle estremità, smisurate caserme bianche, gruppi di case e di cipressi, villaggetti raccolti sui poggi, dietro ai quali ne spuntano altri mezzo nascosti fra la verzura; e per tutto cime di minareti e sommità di cupole biancheggianti fino a mezzo il dorso d’una montagna che chiude come una gran cortina l’orizzonte; una grande città sparpagliata in un immenso giardino, sopra una riva qui rotta da burroni a picco, vestiti di sicomori, là digradante in piani verdi, aperta in piccoli seni pieni d’ombra e di fiori; e lo specchio azzurro del Bosforo che riflette tutta questa bellezza.
Mentre stavo guardando Scutari, il mio amico mi toccò col gomito per annunziarmi che aveva scoperto un’altra città. E vidi infatti, voltandomi verso il mar di Marmara, sulla stessa riva asiatica, al di là di Scutari, una lunghissima fila di case, di moschee e di giardini dinanzi a cui era passato il bastimento, e che fino allora eran rimasti nascosti dalla nebbia. Col cannocchiale si discernevano benissimo i caffè, i bazar, le case all’europea, gli scali, i muri di cinta degli orti, le barchette sparse lungo la riva. Era Kadi-Kioi, il villaggio dei giudici, posto sulle rovine dell’antica Calcedonia, già rivale di Bisanzio; quella Calcedonia fondata seicento ottantacinque anni prima di Cristo dai Megaresi, ai quali fu dato dall’oracolo di Delfo il soprannome di ciechi per avere scelto quel sito invece della riva opposta dove sorge Stambul. – E tre città – ci disse il Capitano –; le contino sulle dita perchè a momenti ne salteranno fuori delle altre.
Il bastimento era sempre immobile fra Scutari e la collina del Serraglio. La nebbia nascondeva affatto il Bosforo da Scutari in là, e tutta Galata e tutta Pera che stavano dinanzi a noi. Ci passavano accanto dei barconi, dei vaporini, dei caicchi, dei piccoli legni a vela; ma nessuno li guardava. Tutti gli occhi erano fissi sulla cortina grigia che copriva la città franca. Io fremevo d’impazienza e di piacere. Ancora pochi momenti, e lo spettacolo meraviglioso, che strappa un grido dall’anima! Appena potevo tener fermo agli occhi il canocchiale, tanto mi tremava la mano. Il capitano mi guardava, pover’uomo, e godeva della mia emozione, e fregandosi le mani esclamava:
– Ci siamo! ci siamo!
Finalmente incominciarono ad apparire dietro al velo prima delle macchie bianchiccie, poi il contorno vago d’una grande altura, poi uno sparso e vivissimo luccichio di vetrate percosse dal sole, e infine Galata e Pera in piena luce, un monte, una miriade di casette di tutti i colori, le une sulle altre; una città altissima coronata di minareti, di cupole e di cipressi; sulla sommità i palazzi monumentali delle Ambasciate, e la gran torre di Galata; ai piedi il vasto arsenale di Tophanè e una foresta di bastimenti; e diradando sempre la nebbia, la città s’allungava rapidamente dalla parte del Bosforo, e balzavano fuori borghi dietro borghi, distesi dall’alto dei colli fino al mare, vasti, fitti, picchiettati di bianco dalle moschee; file di bastimenti, piccoli porti, palazzi a fior d’acqua, padiglioni, giardini, chioschi, boschetti; e confusi nella nebbia lontana, altri borghi di cui si vedevano soltanto le sommità dorate dal sole; uno sbarbaglio di colori, un rigoglio di verde, una fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una grazia da far prorompere in esclamazioni insensate. Sul bastimento tutti erano a bocca aperta: viaggiatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa, bisognava girare sopra sè stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava. Che bei momenti, Dio eterno!
Eppure, il più grande e il più bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua della punta del Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno d’oro, e la più meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d’oro. – Signori, stiano attenti – esclamò il capitano prima di dar l’ordine d’andare avanti; – ora viene il momento critico. In tre minuti siamo in faccia a Costantinopoli!
Provai un senso di freddo.
Si aspettò qualche altro momento.
Ah! come mi saltava il cuore! Con che febbre nell’anima aspettavo quella benedetta
parola: – Avanti!
– Avanti! – gridò il capitano.
Il bastimento si mosse.
Andiamo! Re, principi, Cresi, potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi
compassione di voi; il mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non avrei venduto un mio sguardo per un impero.
Un minuto – un altro minuto – si passa la punta del Serraglio – intravvedo un enorme spazio pieno di luce e un’immensità di cose e di colori – la punta è passata… Ecco Costantinopoli! Costantinopoli sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all’uomo! Io non avevo sognato questa bellezza!
Ed ora descrivi, miserabile! profana con la tua parola questa visione divina! Chi osa descrivere Costantinopoli? Chateaubriand, Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure, le immagini e le parole s’affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto ad un tempo, senza speranza, ma con una voluttà che m’inebria. Vediamo dunque. Il Corno d’oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume; e sulle due rive, due catene d’alture su cui s’innalzano e s’allungano due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontori; cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s’alzano al cielo come smisurate colonne d’avorio; e sporgono boschi di cipressi che discendono in strisce cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti; e una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde. A destra, Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere; sopra Galata, Pera che disegna sul cielo i possenti contorni dei suoi palazzi europei; dinanzi, un ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra, Stambul, distesa sulle sue larghe colline, ognuna delle quali sorregge una moschea gigantesca dalla cupola di piombo e dalle guglie d’oro: Santa Sofia, bianca e rosata; Sultano Ahmed, fiancheggiata da sei minareti; Solimano il Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia nelle acque; sulla quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla quinta, la moschea di Selim; sulla sesta, il serraglio di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze, la torre bianca del Seraschiere che domina le rive dei due continenti dai Dardanelli al mar Nero. Di là dalla sesta collina di Stambul e di là da Galata non si vedono più che profili vaghi, punte di città e di sobborghi, scorci di porti, di flotte e di boschi, quasi svaniti in una atmosfera azzurrina, che non paiono più cose reali, ma inganni dell’aria e della luce. Come afferrare i particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito si rilancia in quella profondità luminosa e spazia a caso fra quelle due fughe di città fantastiche, seguito a stento dalla mente sbalordita. Una maestà infinitamente serena è diffusa su tutta quella bellezza: un non so che di giovanile e d’amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e di sogni primaverili; un che d’aereo, d’arcano e di grande, che rapisce la fantasia fuori del vero. Il cielo, sfumato a finissime tinte opaline ed argentee, contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare, color di zaffiro, tutto picchiettato di gavitelli porporini, fa tremolare i lunghi riflessi bianchi dei minareti; le cupole scintillano; tutta quella immensa vegetazione s’agita e freme all’aria della mattina; nuvoli di colombi svolazzano intorno alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e dorati guizzano sulle acque; il venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di giardini; e quando inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d’ogni altra cosa, ci si volta indietro, si vede con un sentimento nuovo di meraviglia la riva dell’Asia che chiude il panorama colla bellezza pomposa di Scutari e colle cime nevose dell’Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d’isolette e biancheggiante di vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili di chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in mezzo alle più ridenti colline dell’Oriente. Ah sì! Questo è il più bello spettacolo della terra; chi lo nega è ingrato a Dio e ingiuria la creazione; una più grande bellezza soverchierebbe i sensi dell’uomo!
Passata la prima emozione, guardai i viaggiatori: tutte le facce erano mutate. Le due signore ateniesi avevano gli occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s’era stretta sul cuore la piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva sentire per la prima volta la sua voce, esclamando di tratto in tratto: – wonderful! wonderful! – (stupendo stupendo!).
Il bastimento s’era fermato poco lontano dal ponte; in pochi minuti vi si radunò intorno un visibilio di barchette e irruppe sopra coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei, che bestemmiando un italiano dell’altro mondo, s’impadronirono delle nostre robe e delle nostre persone.
Dopo un tentativo inutile di resistenza, diedi un abbraccio al capitano, un bacio a Olga, un addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a quattro remi, che ci condusse alla dogana, di dove ci arrampicammo per un labirinto di stradicciuole fino all’albergo di Bisanzio, sulla sommità della collina di Pera.


È nato FERPILab per intercettare i trend e disegnare il futuro della professione

È nato FERPILab: il centro studi italiano  sulle Relazioni Pubbliche nel mondo

I più importanti esperti di Relazioni Pubbliche e Comunicazione Strategica a livello internazionale insieme agli accademici italiani,  per intercettare i trend e disegnare il futuro della professione.

A meno di sei mesi dall’insediamento del nuovo Consiglio Nazionale della FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana sotto la presidenza di Filippo Nani, il centro studi FERPILab ha completato i primi passi del suo percorso con la costituzione dell’International Advisory Board e del Comitato Scientifico Nazionale.

FERPILab – coordinato da Vincenzo Manfredi, con Biagio Oppi come Delegato internazionale – nasce per indagare e stimolare la ricerca sui nuovi ambiti del settore delle relazioni pubbliche e della comunicazione strategica e per contribuire al dibattito pubblico su temi di interesse generale, come la rappresentanza di interessi, la comunicazione responsabile, l’informazione corretta, la CSR e gli ESG.

Gli obiettivi del centro studi sono quindi ambiziosi: analizzare in che modo le relazioni pubbliche e la comunicazione strategica siano divenute centrali nella contemporaneità, valorizzare la professione e un approccio ad essa responsabile, incentivare l’adozione delle nuove tecnologie in maniera critica, far riconoscere agli stakeholder il contributo che i comunicatori e i relatori pubblici apportano alla società nel suo complesso.

“Siamo molto orgogliosi di aver costituito un centro studi di questo livello, in grado di poter incidere sul futuro delle relazioni pubbliche intercettando trend e tracciando itinerari futuri oggi solamente ipotizzabili. Abbiamo già pubblicato sul sito FERPI un primo paper sulle neuroscienze a cura di Massimo Morelli e nelle settimane scorse il video di un talk dedicato all’Intelligenza Artificiale, con gli interventi di Jim Macnamara e Toni Muzi Falconi. Nei prossimi mesi ulteriori analisi saranno dedicate all’impatto dell’Intelligenza Artificiale sulle relazioni pubbliche e sulla comunicazione strategica”, è il commento diFilippo Nani.

L’impegno di  Toni Muzi Falconi, decano delle relazioni pubbliche in Italia, ha permesso infatti il coinvolgimentonell’International Advisory Boarddi personaggi del calibro di James Grunig, tra i più rilevanti studiosi al mondo della disciplina, di Mervyn King, presidente dell’ International Integrated Reporting Council, dell’australiano Jim Macnamara, tra i maggiori esperti di ascolto organizzativo, nonché dei past president di Global Alliance for Public Relations and Communication ManagementAnne Gregory, Jean Valin e Josè Manuel Velasco, insieme all’attuale CEO, Justin Green. E di molti altri. 

Sono felice che FERPILab sia decollato sotto i migliori auspici – ha detto Toni Muzi Falconi –. Il Comitato internazionale è di altissimo livello e i primi contributi sia individuali che collettivi sono seguiti in tutto il mondo. Penso che chiunque sia interessato alle dinamiche dei sistemi di relazione non possa non tenerne conto“.

Tra i nomi del qualificato Comitato Scientifico Nazionale, invece, la presidente della Conferenza Nazionale dei corsi di studio e dipartimenti in Scienze della comunicazione, Pina Lalli, la presidente di EUPRERA, Stefania Romenti, il vicerettore dell’Università di Pavia, Giampaolo Azzoni, ed altre personalità di primissimo livello del mondo accademico della comunicazione. 

Così il coordinatore del centro studi, Vincenzo Manfredi: “FERPILab è il think tank ideato per supportare la “Thought Leadership”. Uno dei nostri principali obiettivi sarà la definizione della tassonomia disciplinare delle Relazioni Pubbliche, del Public Affairs, dell’Advocacy e Lobby, e della Comunicazione Strategica in tutte le declinazioni della nostra professione. Consideriamo le relazioni pubbliche e la comunicazione strategica driver fondamentali per la gestione della complessità in un mondo in continuo cambiamento”.

Info
Sul sito della FERPI (www.ferpi.it) sono pubblicati via via i contenuti prodotti dal centro studi e le notizie relative alla sua attività, ed è presente una sezione specificamente dedicata a FERPILab. Per contattare FERPILab è possibile scrivere a: ferpilab@ferpi.it


Media Relations FERPI
e-mail: mediarelationferpi@gmail.com

Ecco Lavixology, l’ultimo progetto di Colomba Bianca

Colomba Bianca lancia Lavixology

Al via un’estate di bollicine: un programma di assaggi con gli esclusivi cocktail a base Lavì ideati dall’azienda siciliana

Miscelare le bollicine con ingredienti esotici, creando delle vere e proprie esperienze che conquistino i palati di un numero sempre crescente di giovani consumatori. Ecco Lavixology, l’ultimo progetto di Colomba Bianca che, grazie a una partnership con il mondo del bartending, strizza l’occhio al sempre più trainante segmento della mixology, puntando sull’energia e sulla freschezza delle sue 5 bollicine monovitigno, per dare vita ad altrettanti cocktail, ciascuno con la propria personalità.Lavixology farà incontrare gli spumanti con la mixology. Un connubio che va alla conquista del mondo dei cocktail, svelando il loro volto più contemporaneo e dinamico. Lavì Grillo extra dry (premiato quale miglior Charmat bianco di “Sicilia in Bolle 2023”), Lavì Nerello Mascalese Blanc De Noir BrutLavì rosato Nero D’Avola extra dryLavì Chardonnay Brut Nature e Lavì Zibibbo Demi Sec verranno miscelati con ingredienti speciali, creando proposte originali. Sono 5 spumanti diversi, 5 vitigni che incorporano lo spirito siciliano e che si candidano per rappresentare vitalità e desiderio di condivisione propri del segmento più giovane del mercato. Molteplici appuntamenti in giro per la Sicilia, un programma di serate durante le quali i vini di Colomba Bianca saranno i protagonisti. L’obiettivo è trasformare le vacanze estive dei siciliani in feste eleganti e frizzanti, sfruttando la vivacità delle bollicine. «Lavixology è creatività. I nostri spumanti con l’inventiva dei barman sono diventati protagonisti di ricette coinvolgenti ispirate dal mondo della mixology – afferma Dino Taschetta, presidente di Colomba Bianca – riteniamo si possano coinvolgere nuove fette di mercato». Gli ingredienti che entrano nella composizione dei cocktail non sono difficili da reperire, sono a disposizione di tutti. Il Sicily Blow è una vera esplosione di profumi e colori fatta di limoncello, succo d’arancia e Lavì Zibibbo. Il Fresh75 mixa Gin, sciroppo di lamponi e succo di limone per esaltare il Lavi Blanc de Noir Brut. Queste sono solo due creazioni, è possibile scoprire le altre ricette sul sito Colombabianca.com

«Nel corso degli anni sono aumentati i consumatori di aperitivi alcolici (+41%, dati Istat 2022, ndc) – afferma Giuseppe Gambino, direttore vendite e sviluppo commerciale di Colomba Bianca – questo è un trend da monitorare con molta attenzione, perché include anche consumi di vino, in particolare spumante mixato. Si consideri che delle 200 mila bottiglie di spumante che Colomba Bianca produce, la metà è destinata ai wine bar, alle discoteche e al mondo notte. Cresce dunque il consumo di cocktail nei quali lo spumante è ingrediente essenziale. Per questo, abbiamo ideato questi cinque cocktail: per promuovere la qualità e la versatilità dello spumante siciliano. L’idea è coinvolgere in futuro aziende produttrici di spirits della nostra isola per puntare sul fenomeno della mixology made in Sicily. La presenza del corner Lavixology il 10 agosto all’evento da noi organizzato Calici di Stelle evidenzia l’attenzione che la nostra azienda riserva verso il mondo dei cocktail».


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