9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Ebrei

9- La vita a Costantinopoli – Gli Ebrei

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

21


Riguardo alle ebree, posso affermare, dopo esser stato nel Marocco, che quelle di Costantinopoli non hanno che fare con quelle della costa settentrionale dell’Africa, nelle quali i dotti osservatori credono di vedere ancora in tutta la sua purezza il primo tipo orientale della bellezza ebraica. Colla speranza di trovare questa bellezza, mi armai di coraggio, e feci molti giri per il vasto ghetto di Balata, che s’allunga, come un serpente immondo, sulla riva del Corno d’oro. Mi spinsi fin nei vicoli più miserabili, in mezzo a casupole «grommate di muffa» come le ripe della bolgia dantesca, per crocicchi dove non ripasserei più che sui trampoli e colle narici turate; guardando per le finestre tappezzate di cenci nauseabondi, nelle stanze nere e viscose; soffermandomi dinanzi alle porte dei cortili umidi da cui usciva un tanfo da mozzare il fiato, facendomi largo in mezzo a gruppi di ragazzi scrofolosi e tignosi, toccando col gomito dei vecchi orrendi, che parevano morti di peste risuscitati; scansando a ogni passo cani coperti di piaghe e laghi di mota nera e panni schifosi appesi a corde bisunte, e mucchi di putridumi da far cadere in deliquio; ma il mio coraggio non fu ricompensato. Fra le molte donne che incontrai imbacuccate nel loro calpak nazionale, che sembra un turbante allungato e copre i capelli e le orecchie, vidi bensì qualche viso in cui riconobbi quella regolarità delicata di lineamenti e quell’aria soave di rassegnazione, che si considera come il tratto distintivo delle ebree di Costantinopoli; vidi qualche vago profilo di Rebecca e di Rachele, dagli occhi a mandorla, pieni di dolcezza e di grazia; e qualche figura elegante, ritta in un atteggiamento raffaellesco sulla soglia d’una porta, con una mano sottile appoggiata sul capo ricciuto d’un bimbo. Ma nella maggior parte non vidi che i segni della degradazione della razza. Che differenza tra quelle figure stentite, e gli occhi di fuoco, i colori pomposi e le forme opulente che ammirai un anno dopo nei mellà di Tangeri e di Fez! Ed è lo stesso degli uomini, spersoniti, giallognoli, molli, di cui tutta la vitalità pare che si sia raccolta negli occhi scintillanti d’astuzia e di cupidigia, che essi girano continuamente intorno a sè stessi, come se da tutte le parti sentissero saltellare delle monete. Ed ora m’aspetto che i miei buoni critici israeliti, che già mi diedero sulle dita a proposito dei loro correligionari del Marocco, ricantino la stessa canzone, scrivendo a colpa dei turchi oppressori la decadenza e l’avvilimento degli ebrei di Costantinopoli. Ma badino che nelle medesime condizioni politiche e civili degli ebrei si trovarono tutti gli altri sudditi non musulmani della Porta; e che se anche questo non fosse, sarebbe assai difficile il provare che la vergognosa immondizia, la precocità dei matrimoni e l’astensione da tutti i mestieri faticosi, considerate come cause efficacissime di quella decadenza, siano una conseguenza logica della mancanza di libertà e d’indipendenza. E se mi vorranno dire invece, che non l’oppressione politica dei turchi, ma le piccole persecuzioni e il disprezzo di tutti, sono stati la cagione di quell’avvilimento, domandino prima a sè stessi se per caso non fosse vero il contrario; se la prima cagione non sia piuttosto da ricercarsi nei loro costumi e nella loro vita; e se invece di nasconder la piaga, non sarebbe utile che essi medesimi la toccassero col ferro rovente.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Roma (Pigneto), Spazio Urano: “Quel che resta”, personale di Mauro Romano

Tre opere di Mauro Romano, da sinistra:
Quel che resta, dopo un bombardamento, olio su tela e cementite, 90×120, 2023
Quel che resta, dopo un litigio, olio su tela e cementite, 80×120, 2023
Quel che resta, dopo un naufragio, olio su tela e cementite, 90×120, 2023

Quel che resta
Personale di
Mauro Romano

A cura di Simona Pandolfi

9 – 19 settembre 2023

Inaugurazione 9 settembre 2023, ore 18.30

Spazio Urano, via Sampiero di Bastelica 12 – Roma (Pigneto)

Dopo la chiusura estiva, l’attività espositiva di Spazio Urano riprende con la personale di Mauro Romano, pittore e fotografo romano.
In mostra la serie pittorica “Quel che resta”, in cui l’artista cerca una maggiore relazione emozionale tra le proprie impressioni e la superficie pittorica. Come in una sorta di diario personale, le tele diventano “finestre” sull’attimo dopo qualcosa di significativo, che si fa traccia di un sentire energico e al tempo stesso evanescente: quel che resta dopo un litigio, dopo un ballo, dopo una fuga, dopo un naufragio, etc.

In questo meccanismo ideativo, l’artista è inconsapevolmente influenzato dalla sua attività di fotografo, professione che si imbatte quotidianamente con lo spectrum dell’immagine, per usare un termine caro a Roland Barthes. Come dichiara lo stesso Romano, ogni opera della serie vuole infatti raccogliere «il “fotogramma” di quel momento in cui il movimento e i turbamenti sono e stanno per finire ma al tempo stesso indicano una rinascita».

Le composizioni della serie, in prevalenza astratte, sono caratterizzate da un’istintiva stesura della pittura ad olio e dalla presenza, sempre in alto a destra, di grandi forme-colore irregolari, luminose e di colore bianco, dietro alle quali si intravedono ancora residui figurativi dell’immagine reale.

Mauro Romano – Breve biografia

Mauro Romano nasce a Roma nel 1977. Diplomatosi in graphic design presso l’Istituto Federico Cesi di Roma nel 1999. Manifesta da sempre propensione per le arti visive, la sua ricerca artistica spazia tra disegno, pittura, fumetto, fotografia, computer grafica. Vive e lavora a Roma, il suo studio si trova presso City Lab 971 in via Salaria 971.


Informazioni
La mostra sarà visitabile fino al 19 settembre 2023
Visitabile su appuntamento: tel 3290932851 e-mail info@spaziourano.com 

Bologna, MAMbo, Foyer: Giovanni Zaffagnini. I libri e il fango nella Romagna allagata

I libri e il fango

Giovanni Zaffagnini
I libri e il fango nella Romagna allagata
8 agosto – 24 settembre 2023

MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna | Foyer

Via Don Minzoni 14, Bologna

www.mambo-bologna.org

Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna è lieto di ospitare negli spazi del foyer la mostra I libri e il fango nella Romagna allagata, visibile dall’8 agosto al 24 settembre 2023, nella quale 22 fotografie scattate da Giovanni Zaffagnini raccontano l’impatto devastante della recente alluvione in Romagna sui libri. Accartocciati, gonfi, resi illeggibili, ricoperti di fango, i volumi messi a disposizione per le foto dalla Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza, dalla Biblioteca Comunale Fabrizio Trisi di Lugo e dalla Libreria Alfabeta di Lugo, ci mostrano al contempo fragilità e resilienza.

Dalle immagini, nel corso della mostra, sarà realizzata una pubblicazione catalogo edita da Danilo Montanari Editore, con prefazione di Marco Sangiorgi. Il ricavato dalla vendita del libro e delle fotografie sarà devoluto alle biblioteche danneggiate dall’alluvione del maggio 2023 in Romagna.

I libri e il fango

Su questi “ritratti” di libri infangati Giovanni Zaffagnini spiega: “Archiviati i momenti riservati alla cronaca in diretta, si avverte l’esigenza di  un approccio diverso, meno frenetico, più riflessivo. Ritratti di libri sopraffatti dal fango, nella morsa di un’agonia lenta e implacabile. Lo sfondo neutro delle immagini non contempla alcun contesto e indica senza indugi  il soggetto prescelto; «quasi abbozzo di scultura» scrive Marco Sangiorgi nella prefazione del volume. Chi gestisce la raccolta dei rifiuti ci informa sul destino riservato ai libri alluvionati: finiranno triturati e macinati nell’ambito del programma di riciclo. Nuova vita dunque? torneranno libro? o saranno “retrocessi” a carta da pacchi o altro? Queste immagini potrebbero essere le ultime foto-ricordo di libri ancora tali sebbene deformati e sporchi. Il pensiero mi accompagna fin dal primo scatto; chi ama leggere su carta capirà”.     

I libri e il fango

Giovanni Zaffagnini – Note biografiche

Giovanni Zaffagnini vive e lavora a Fusignano (Ravenna).
Dalle ricerche etnografiche concluse nel corso degli anni ottanta, è passato a una fotografia rivolta prevalentemente ai linguaggi e alla sperimentazione, spesso legata ad altre forme di espressione.
Nel 1986, su progetto di Gianni Celati, è stato fra i curatori della mostra itinerante e del volume Traversate del deserto (Ravenna, Essegi Editore); nel 2016 ha curato la mostra e il volume Abitare il deserto (Ravenna, Osservatorio fotografico).
Ha esposto i suoi lavori in mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Ha pubblicato monografie con vari editori fra i quali: Charta, Silvana Editoriale, Danilo Montanari, Editrice Quinlan, Pequod Edizioni.
I suoi lavori fanno parte delle collezioni di: Bibliothèque Nationale de France, Paris; Canadian Centre for Architecture, Montreal; Galleria Civica, Modena; Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna; Archivio Italo Zannier, Venezia; Fondo etno-fotografico G. Zaffagnini, Biblioteca Malatestiana, Cesena.
www.giovannizaffagnini.it


Informazioni generali
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Via Don Minzoni 14 | 40121 Bologna
Tel. +39 051 6496611
www.mambo-bologna.org
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Settore Musei Civici Bologna

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Ufficio stampa Settore Musei Civici Bologna

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Silvia Tonelli – Tel +39 051 6496620 e-mail silvia.tonelli@comune.bologna.it

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I Greci

9- La vita a Costantinopoli – I Greci

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Quanto è difficile riconoscere a occhio l’armeno, altrettanto è facile riconoscere il greco, anche non badando al vestire; tanto egli è diverso di natura e d’aspetto dagli altri sudditi dell’Impero, e principalmente dal turco. Per rendersi ragione di questa diversità, o piuttosto di questo contrasto, basta osservare un turco ed un greco, che si trovino seduti l’uno accanto all’altro in un caffè o in un piroscafo. Hanno un bell’essere pressappoco della stessa età e dello stesso ceto, e vestiti tutt’e due all’europea, ed anche somiglianti di viso; non è possibile sbagliare. Il turco è immobile, e tutti i suoi lineamenti riposano in una specie di quiete senza pensiero, che somiglia a quella d’un animale satollo; o se il suo viso rivela un pensiero, pare che debba essere un pensiero immobile come il suo corpo. Non guarda nessuno, non dà segno d’accorgersi d’esser guardato; il suo atteggiamento mostra una profonda noncuranza di tutti coloro e di tutto quello che ha intorno; il suo viso esprime qualcosa della tristezza rassegnata d’uno schiavo e dell’orgoglio freddo d’un despota; un che di duro, di chiuso, di cocciuto, da far disperare alla prima chi si proponesse di persuaderlo di qualche cosa o di rimuoverlo di una risoluzione. Ha, insomma, l’aspetto d’uno di quegli uomini tutti d’un pezzo, coi quali pare che non si possa vivere altrimenti che obbedendoli o comandandoli; e che per quanto tempo ci si viva insieme, non si debba mai poterci prendere una famigliarità intera. Il greco invece è mobilissimo, e rivela con mille sfuggevoli guizzi dello sguardo e delle labbra tutto quello che gli passa nell’anima; scuote la testa con movimenti di cavallo indomito; il suo volto esprime un’alterezza giovanile, e qualche volta quasi fanciullesca; se si vede guardato, s’atteggia; se non è guardato, si mette in mostra; par sempre che desideri o che fantastichi qualche cosa; spira da tutta la persona l’accorgimento e l’ambizione; e inspira simpatia, anche se ha la faccia d’un cattivo soggetto, e gli si darebbe la mano anche quando non si vorrebbe affidargli la borsa. Basta veder vicini questi due uomini, per capire che l’uno deve parere all’altro un barbaro, un orgoglioso, un prepotente, un brutale; che questi deve giudicar quello un uomo leggiero, falso, maligno, turbolento; e che debbono disprezzarsi e detestarsi reciprocamente con tutte le forze dell’anima; e non trovar la via di vivere d’accordo. La stessa differenza si osserva tra le donne greche e le altre donne levantine. In mezzo alle turche e alle armene belle e floride, ma che toccano quasi più i sensi di quello che parlino all’anima, si riconoscono alla prima, con un sentimento di grata meraviglia, i visi eleganti e puri delle greche, illuminati da due occhi pieni di pensiero, dei quali ogni sguardo fa venir sulle labbra il verso d’un ode; e i bei corpi maestosi insieme e leggeri, che ispirano il desiderio di stringerli fra le braccia, piuttosto per metterli sopra un piedestallo, che per portarli nell’arem. Se ne vedono di quelle che portano ancora i capelli cadenti, all’antica, in lunghe ciocche ondulate, e una grossa treccia ravvolta intorno alla testa in forma di diadema; così belle, così nobili, così classiche, che si piglierebbero per statue di Prassitele e di Lisippo, o per giovanette immortali ritrovate dopo venti secoli in qualche valle ignorata della Laconia o in qualche isoletta dimenticata dell’Egeo. Sono però rarissime queste bellezze sovrane anche tra le greche, e oramai non se ne trova più esempio che fra la vecchia aristocrazia dell’impero, nel quartiere silenzioso e triste del Fanar, dove s’è rifugiata l’anima dell’antica Bisanzio. Là si vede ancora qualche volta una di quelle donne superbe affacciata a un balcone a balaustri, o all’inferriata d’una finestra altissima, cogli occhi fissi nella strada solitaria, nell’atteggiamento d’una regina prigioniera; e quando il servidorame dei discendenti dei Paleologhi e dei Comneni, non sta oziando dinanzi alle porte, si può, contemplandola di nascosto, credere per un momento di veder per lo squarcio d’una nuvola il viso d’una dea dell’Olimpo.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Treviso, Museo Civico Luigi Bailo: JUTI RAVENNA. Un artista tra Venezia e Treviso

Juti Ravenna, Piazza dei Signori verso piazza Indipendenza
(Piazza dei Signori sotto la pioggia), 1935.

JUTI RAVENNA (1897 – 1972)
Un artista tra Venezia e Treviso

Treviso, Museo Civico Luigi Bailo

13 ottobre 2023 – 4 febbraio 2024

Il 29 aprile del 1972 moriva a Treviso Juti (Luigi) Ravenna, artista eccellente e attento critico d’arte. A oltre cinquant’anni della sua scomparsa, i Musei Civici di Treviso gli dedicano una retrospettiva al Museo Bailo, la cui pinacoteca conserva un suo importante nucleo di opere.
La mostra, curata da Eugenio Manzato ed Eleonora Drago, presenta, attraverso un percorso cronologico, le varie fasi dell’attività e della vita dell’artista, con oltre 100 opere pittoriche, disegni, bozzetti e acquerelli, ma anche con documenti e foto d’epoca e oggetti a lui appartenuti, tutti provenienti da collezioni private per lo più locali e ovviamente con la rinnovata esposizione al pubblico delle opere dell’artista già di proprietà civica.

Ravenna nasce a Spadacenta, frazione del comune di Annone Veneto, nel 1897. Già da giovanissimo manifesta una forte propensione per la pittura, espressa in una serie di disegni di impronta classica: una passione che neppure la chiamata al fronte, nel primo conflitto mondiale, riuscì ad attenuare. Come testimoniano gli album di disegni realizzati in presa diretta sulle linee di combattimento, disegni che sono in parte confluiti nel libro autobiografico Una vita per la pittura (1969, curata da Giuseppe Mesirca con 29 suoi disegni) e nel Diario di guerra del granatiere Giuriati Giuseppe, con prefazione di Giovanni Comisso. Grazie ad una licenza dal fronte raggiunge Firenze, e qui entra in contatto con la pittura e gli scritti di Ardengo Soffici e scopre l’impressionismo francese. Dal 1919 è nuovamente in Veneto per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Venezia, e già negli anni successivi trasferisce il suo studio a Ca’ Pesaro, cominciando ad esporre. Nel capoluogo lagunare conosce Gino Rossi e Pio Semeghini; con Seibezzi e altri condivide a lungo l’amore per l’isola di Burano e per le vedute tra acqua e cielo.

La prima personale, nel 1924 a Cà Pesaro, è curata a Nino Barbantini. Seguono partecipazioni alla Quadriennale e a diverse mostre di rilievo in Italia e all’estero. La prima sua Biennale è del 1928, presenza puntualmente ripetuta sino al secondo conflitto, per riprendere nel 1949 e ancora nel ’50 e nel ’72. Conosce e frequenta, nel 1928, Filippo de Pisis, che al rientro da Parigi fu suo ospite a Venezia.

L’attività pittorica di Ravenna viene avvicinata alla generazione di giovani artisti gravitanti su Venezia, desiderosi di uscire dagli schemi di un accademismo ancora imperante per avvicinarsi al nuovo che stava avanzando in Europa. I suoi paesaggi veneziani di questi anni, così come successivamente quelli trevigiani, raccontano i luoghi, le luci, le atmosfere attingendo al registro poetico più che a quello documentario.

Nel ’51, con Virgilio Guidi vince il Premio Burano, ma già dal ’47 aveva scelto di abbandonare la laguna per approdare a Treviso, città che frequentava sin dagli anni ’30 e dove contava molti amici.

Da lì in poi, la sua pittura vede una svolta: come segnalato da Mesirca, “Il trasferimento a Treviso, a contatto con una natura esuberante, ricca di alberi e fiumi, fece subentrare in lui una prepotente e calda sensualità: dopo i prediletti grigi, rosa e violetti stesi sulla tela in finissimi accordi nel periodo veneziano, ecco i colori vivi e splendenti, in liberi e arditi accostamenti. Non si trattava però di un orgiastico e confuso abbandono, ma di una felice esplosione contenuta entro i limiti del più rigoroso controllo.”

Frequenti sono i suoi soggiorni tra i colli e la campagna veneta, dove realizza scorci e vedute di paesaggi, ma anche visioni del Sile, nei quali i colori divengono sempre più vividi e potenti, distaccandosi dalla realtà, in parallelo con l’allontanamento dell’artista dai movimenti militanti dell’arte d’avanguardia, che si sviluppavano a Venezia. Negli inverni, dalla fine degli anni ’50 spesso si rifugia in Liguria; inoltre, realizza l’originale serie delle “Boutiques”, eseguite nell’arco di quasi un quarantennio.

Artista ma anche critico. In questa veste, oltre che con suoi disegni, interviene su diverse riviste: nel 1943, con Egidio Bonfante, pubblica “50 disegni di Picasso” e, sempre con Bonfante, nel ’52, “Arte Cubista”.

Juti Ravenna, Autoritratto in costume da Pierrot, 1938
Musei Civici di Treviso

Il percorso di mostra, ripercorrendo i momenti e i luoghi della vita e dell’attività di Juti Ravenna, è articolato in dieci sezioni, e presenta dipinti, acquerelli e disegni, ma anche una ricca e preziosa selezione di documenti, scritti e fotografie dell’epoca. Si avvale della partecipazione di generosi prestiti da collezionisti privati e discendenti, amici e conoscenti di Ravenna, con pezzi per lo più poco noti e talvolta inediti, oltre ovviamente alle opere già di proprietà dei Musei Civici di Treviso giunte in collezione nel corso dei decenni.

L’esposizione parte dal luogo di nascita in cui ha ricevuto la prima formazione, iniziata fin dall’adolescenza con la frequenza della Scuola di Arti e Mestieri di Motta di Livenza, dove ha avuto tra i suoi insegnanti Antonio Beni, architetto e pittore, e dove compie i primi esperimenti nella pittura ritraendo i familiari e la casa natale. Oltre alle prime prove pittoriche e a disegno – tra le novità di questa mostra – si passa quindi alle sue residenze veneziane: lo studio a Ca’ Pesaro tra il ’23 e il ’28, quello a Palazzo Carminati dal ’28 al ’47; sono di questo periodo, cruciale nella vita e nell’attività dell’artista, opere fondamentali come Il discepolo l’Autoritratto con la stufa, nonché nature morte e vedute di Venezia e di Burano, composizioni strutturate e dal solido disegno con le quali Ravenna si avvicina al novecentismo. I rapporti con Treviso iniziano ben prima del 1947, quando vi si trasferisce, e ve n’è testimonianza in alcuni acquarelli del 1942 giunti al Museo col lascito Luccini; personaggi e vedute trevigiane costituiscono, insieme alle “boutique” e a qualche paesaggio ligure, l’ultima parte della mostra, che termina con una ricostruzione dello studio d’artista, ambiente che ha sempre segnato le sue fasi biografiche, grazie anche all’esposizione di suoi strumenti di lavoro.

Attraverso un viaggio che inizia dalle primissime prove eseguite dal giovane Juti prima del trasferimento a Venezia, vengono evidenziate le diverse e molteplici fasi artistiche e biografiche dell’autore, scandite da incontri e stimoli intellettuali, culturali e sociali, testimoniati dai ritratti a penna e pennello; ma sempre mantenendo viva un’attenzione vera e profonda alla propria interiorità, che in mostra emerge dai preziosi autoritratti, posti a marcare le fasi di una personale idea di arte e vita unica e irripetibile.

«La retrospettiva dedicata a Juti Ravenna rappresenta un’altra importante e preziosa occasione di valorizzazione del nostro patrimonio artistico», afferma il sindaco Mario Conte. «Grazie a prestiti privati e alla collezione dei nostri Musei, ci sarà infatti la possibilità di ammirare le opere del pittore che proprio a Treviso, complici le meraviglie paesaggistiche che contraddistinguono la nostra Città e il suo territorio, visse un periodo di particolare vivacità artistica».  

La mostra sarà accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo che raccoglierà, oltre all’elenco delle opere esposte con relative foto, una serie di contributi che mirano ad approfondire aspetti meno noti alla letteratura sulla figura di Juti Ravenna, come gli esordi giovanili, i primi anni veneziani e il lungo periodo di attività a Treviso (Eugenio Manzato ed Eleonora Drago).

Inoltre, saranno presenti alcuni saggi con focus tematici: la produzione a tema sacro (Paolo Barbisan),

rapporti quotidiani e privati con amici e intellettuali come Giovanni Comisso (Mario Sutor) e altri artisti (Daniela Chinaglia).


MUSEO LUIGI BAILO
Borgo Cavour, 24 Treviso
prenotazioni e visite guidate: prenotazioni@museitreviso.it
T 0422 658951
www.museitreviso.it
www.museicivicitreviso.it
 
Ufficio Stampa: Studio ESSECI, Sergio Campagnolo +39 049 663499
Ref. Roberta Barbaro – roberta@studioesseci.net

Bologna, nella Project Room del MAMbo Museo: Muna Mussie

Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Project Room
Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
,
A cura di Francesca Verga con Archive Ensemble
Periodo di apertura: fino al 10 settembre 2023
Ingresso con biglietto museo: intero € 6 | ridotto € 4 | ridotto speciale € 2 giovani 19-25 anni | gratuito possessori Card Cultura

La Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna conferma la propria vocazione alla ricostruzione, al racconto e alla valorizzazione delle esperienze culturali e artistiche che hanno avuto luogo a Bologna e in Emilia-Romagna accogliendo la mostra di Muna Mussie (Eritrea, 1978) Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna.

Il progetto, a cura di Francesca Verga con Archive Ensemble, riattiva la memoria personale dell’artista e l’archivio storico e iconografico dei Congressi e Festival Eritrei che si sono tenuti a Bologna ininterrottamente dal 1972 al 1991. Frequentati dalle comunità diasporiche eritree provenienti da tutto il mondo, i Festival si sono collocati in prima linea per supportare la lotta armata inaugurata nel 1961 per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. A sottolineare l’importanza che queste occasioni di incontro hanno avuto, al termine della guerra, il neo governo eritreo, proclamato nel 1993 dal presidente Isaias Afewerki, ha voluto dedicare ad Asmara – la capitale dell’Eritrea – una strada intitolata Bologna St., come riconoscimento permanente del ruolo fondamentale che la città di Bologna ha avuto nel raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea.
A partire dal legame che unisce l’Eritrea, il paese nativo dell’artista, e Bologna, la sua città adottiva, Muna Mussie consegna una narrazione e una mappatura tracciata dai Congressi e Festival eritrei, attraverso la consultazione di archivi pubblici e privati raccolti nel territorio bolognese. I materiali di archivio vengono messi in dialogo dall’artista con alcune opere che hanno accompagnato le tappe precedenti della ricerca e altre inedite.

Muna Mussie
Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna
veduta della mostra nella Project Room
del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Photo Ornella De Carlo
Courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Bologna St.173, Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna si realizza grazie al sostegno dell’Italian Council (XI edizione, 2022), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nell’ambito del programma è prevista la donazione al MAMbo di un’opera che verrà completata alla fine del processo di ricerca di Muna Mussie.

L’esposizione al museo bolognese nasce inoltre dal dialogo e dal confronto con Archive Kabinett e fa seguito alla mostra personale di Muna Mussie, intitolata Bologna St. 173. Il sole d’agosto, in alto nel cielo, batte forte (Milano 2021), curata da Zasha Colah e Chiara Figone.


Ufficio Stampa / Press Office Settore Musei Civici Bologna
Via Don Minzoni 14 | 40121 Bologna
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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

9- La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

19


Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire, di studiare molto le tre nazioni, armena, greca ed ebrea, che formano la popolazione dei rajà; studio, d’altra parte, assai lungo, poiché se ognuno di quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria, la vita esteriore di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale va ora perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde presentano tutti e tre la difficoltà d’osservazione che presenterebbe un quadro mobile e cangiante. Gli armeni, in special modo, «cristiani di spirito e di fede, e musulmani asiatici di nascita e di carne», non sono soltanto difficili a studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poiché quella parte di loro che non ha ancora preso il vestiario europeo, è vestita alla turca, salvo piccolissime differenze; e non usa quasi più affatto l’antico berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali, il segno distintivo della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell’aspetto. Sono per lo più alti di statura, robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d’andatura e di modi gravi, e mostrano nel viso le due qualità proprie della loro natura: lo spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui sono meravigliosamente atti al commercio, e quella placidità, che altri vuol chiamare pieghevolezza servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall’Ungheria alla China, e a rendersi accetti particolarmente ai turchi, dei quali si cattivarono la fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non hanno nè fuori nè dentro nulla di bellicoso e d’eroico. Tali, forse, non erano anticamente nella regione asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano tuttora assai diversi i loro fratelli che l’abitano; ma quei che furono trapiantati di qua dal Bosforo, sono veramente un popolo mansueto e prudente, modesto nella vita, non inteso ad altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si dice, d’ogni altro popolo di Costantinopoli. I turchi li chiamano i cammelli dell’impero e i franchi dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in gran parte giustificati dal fatto, poiché in grazia appunto della loro forza fisica e della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a un buon numero d’architetti, d’ingegneri, di medici, d’artefici ingegnosi e pazienti, essi forniscono a Costantinopoli la maggior parte dei facchini e dei banchieri: facchini che portano pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s’accorgerebbe che v’è un popolo armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c’è che un occhio molto esperto che le possa riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch’esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d’alta statura e di forme matronali, che coronate d’un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte d’aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell’anima che brilla sul volto della donna greca.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria: Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative

Mario Mafai, Dopopioggia, 1945, olio su tela, Archivio e collezione Sandro Penna

PERUGIA

ALLA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA

DAL 6 OTTOBRE 2023 AL 14 GENNAIO 2024

UNA MOSTRA CELEBRA
SANDRO PENNA

L’esposizione, dal titolo Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative, presenta 150 opere di autori quali Pablo Picasso, Jean Cocteau, Filippo De Pisis, Mario Mafai, Tano Festa, Mario Schifano, Franco Angeli e altri. Già nella sua casa romana, gettano una luce del tutto inedita sui rapporti col mondo dell’arte di uno dei poeti più sensibili e profondi dell’intero Novecento italiano.

A cura di Roberto Deidier, Tommaso Mozzati, Carla Scagliosi

Dopo la grande mostra dedicata al Perugino a 500 anni dalla sua scomparsa, Perugia celebra un altro suo importante concittadino: il poeta Sandro Penna (1906-1977), una delle voci più sensibili e profonde del Novecento, non solo italiano, come dimostrano le numerose e continue traduzioni dei suoi versi.

La Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia ospita dal 6 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024 la mostra Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative, che indaga il rapporto di Penna con il mondo dell’arte, mettendo a fuoco i gusti e le tendenze diffusi sulla scena culturale fra gli anni quaranta e gli anni settanta, della quale il poeta fu un assoluto protagonista, al pari di Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia ed Elsa Morante, suoi amici e colleghi.

L’esposizione, curata da Roberto Deidier, Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi, presenta 150 opere di autori quali Pablo Picasso, Jean Cocteau, Alexander Calder e altri, tra cui gli artisti coi quali Sandro Penna instaurò uno stretto rapporto di amicizia e una frequentazione quotidiana: da Filippo De Pisis a Mario Mafai, daTano Festa a Mario Schifano, e Franco Angeli, ovvero dalla scuola romana ai giovani di Piazza del Popolo.

Sandro Penna nella sua casa di via Mole de’ Fiorentini

La rassegna, per la prima volta, offrirà al visitatore l’occasione di ammirare un vasto nucleo, recentemente identificato, di opere provenienti dalla casa del poeta, in via Mole de’ Fiorentini a Roma dove, oltre a intrattenersi con pittori, scultori, galleristi e letterati, Penna svolgeva la sua attività di mercante d’arte.

Il percorso si completa con un’accurata scelta di autografi, diari e lettere, indispensabile, assieme alle prime edizioni e ai materiali audiovisivi, per far luce sulle passioni dello scrittore, attraverso il colto dialogo fra immagine e parola scritta.

Proprio questo dialogo, del resto, ha suggerito alla letteratura critica un parallelo fra la sua opera letteraria e il mestiere di pittore, commentando la sintonia intima, cifrata, intessuta dai suoi versi con le espressioni plastiche coeve.

In particolare, il critico letterario Cesare Garboli fu il primo a sottolineare quanto Penna solesse trattare le proprie poesie “come fossero dei quadri”. E altri, da Luciano Anceschi a Carlo Levi, da Dario Bellezza a Elio Pecora, hanno intravisto nella sua lirica gli echi più svariati, da Matisse a Watteau, da Scipione a Rosai, passando naturalmente per il Perugino e i suoi paesaggi chiari ed evocativi, pieni d’aria e d’azzurro.

Catalogo Magonza


Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative
Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (corso Pietro Vannucci, 19)
6 ottobre 2023 – 14 gennaio 2024
 
Orari:
Dal 6 al-31 ottobre
Lunedì ore 12.00 – 19.30 (ultimo accesso 18.30)                                                                                            
Martedì -domenica 8.30 – 19.30 (ultimo accesso 18.30)
 
Dal 1 novembre a 14 gennaio 2024
Lunedì chiuso
Martedì -domenica 8.30 – 19.30 (ultimo accesso 18.30)
 
 
Biglietti: La visita alla mostra è compresa nel biglietto di ingresso al museo.  Intero € 10; ridotto € 2 – 18-25 anni; gratuito fino a 18 anni
 
Informazioni: Tel. 075.58668436; gan-umb@cultura.gov.it
 
Sito internet:    www.gallerianazionaledellumbria.it
 
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Castello di Rivoli: Un incontro del XXI secolo tra artisti, scienziati e filosofi

Da sinistra: Paola Antonelli, designer, architetto e curatrice
Stefano Buono, fisico nucleare e cofondatore di newcleo
Carolyn Christov-Bakargiev, storica dell’arte, Direttore Castello di Rivoli

Culture dell’energia. Energie, immaginari, valute e orizzonti nucleari del pianeta.

Un incontro del XXI secolo tra artisti, scienziati e filosofi.

Il convegno è a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Direttore del Castello di Rivoli, e Agnieszka Kurant, artista
Coordinamento Giulia Colletti

 
Sabato 23 settembre 2023
La prime due sessioni, dalle ore 10.00 alle 12.00 e dalle ore 14.00 alle 16.00, sono aperte al pubblico e si svolgono nel Teatro del Castello di Rivoli.

Saranno trasmesse in live streaming sul canale ufficiale YouTube del Museo.
La terza sessione, dalle ore 17.00 alle 19.00, è un incontro a porte chiuse presso newcleo, Torino

La questione dell’energia è tra le più vitali per il futuro dell’umanità e per il fiorire multispecie della vita umana e non umana sulla Terra. Il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea presenta un convegno multidisciplinare di arte, scienza e filosofia dal titolo Culture dell’energia. Energie, immaginari, valute e orizzonti nucleari del pianeta che affronta le contraddizioni e tenta di liberare le proprietà dirompenti e trasformative dell’energia che attraversa, senza soluzione di continuità, opere d’arte e innovazioni scientifiche. Nel tentativo di esplorare potenziali scenari di coevoluzione energetica tra specie differenti, il convegno indaga la materia vivente a partire dai suoi atomi, dal loro intreccio, dalla loro comunicazione e interazione, tentando di mettere in questione i postulati statici e convenzionali sull’energia. Il convegno, che si tiene il 23 settembre, riunisce artisti, scrittori, scienziati, filosofi e architetti per due sessioni aperte al pubblico nel Teatro del Museo. Nel tardo pomeriggio, quest’ultimi continueranno le loro discussioni in una sessione di incontro a porte chiuse presso newcleo, start up con sede a Torino che promuove un approccio all’energia nucleare innovativo ed ecologico.

“newcleo sostiene e co-ospita questo evento con il Castello di Rivoli”, afferma il direttore Carolyn Christov-Bakargiev, “e lo dico in piena trasparenza: i partecipanti non sono tutti sostenitori dell’energia nucleare come parte integrante del nostro futuro; alcuni di loro sono molto scettici. Con questa conferenza scettici ed entusiasti potranno confrontarsi, producendo una reazione chimica in grado di rilasciare forme inaspettate di energia cognitiva”.

L’energia ha modellato la vita sulla Terra, le civiltà e le società nel corso della Storia, dalla conversione fotosintetica dell’energia solare in biomassa, passando per la combustione fossile, per le centrali idroelettriche, fino all’uso dell’energia atomica dalla metà del XX secolo attraverso la fissione nucleare – processo mediante il quale i neutroni rilasciati dagli atomi fanno bollire l’acqua utilizzata per generare elettricità nelle turbine. L’ambito energetico è stato sempre oggetto di indagine umana nel Nord e nel Sud del mondo e nei mondi indigeni. Il termine greco ἐνέργεια (energeia), adottato per la prima volta da Aristotele, deriva dall’uso precedente del termine ἔργον (ergon) che significa “attivo, operante”, preceduto da en- che significa “a” o “verso”. Fu usato per la prima volta da Eraclito e dai presocratici per connotare il fuoco come fonte primaria di azione. Nella sua Fisica, Eraclito considerava Energon il creatore di tutta la vita su Gaia.

L’energia è una valuta universale, prodotta da un vortice di forze animali, vegetali e fisiche. Tuttavia, le attuali forme di produzione e consumo umano di energia stanno portando alla distruzione del mondo. L’energia pulita è la base su cui dovrebbe poggiare il nostro futuro, ma l’elettricità dipende ancora da batterie e forme di stoccaggio altamente inquinanti. Come far fronte alla conservazione di energia? Che dire dell’eccesso di energia non sfruttata, che si accumula sotto forma di calore nel nostro pianeta? Come trasmetterla o farla diventare forma di vita per altri esseri? Nell’immaginare forme di stoccaggio energetico su vasta scala, essenziali per i nostri dispositivi tecnologici, si potrebbe prendere ispirazione dal comportamento delle piante “iperaccumulatrici” o da pratiche come l’agromining e il phytomining, in grado di ridurre i gas serra e l’inquinamento idrico, sottoprodotti dell’estrazione di minerali. Come suggerito dal filosofo Emanuele Coccia, quello che sembra avvenire oggi è un ripensamento dei paradigmi energetici: dalla termodinamica classica – per la quale la posta in gioco è il mantenimento di un equilibrio – alla alchimia – dove ogni essere vivente e non vivente è potenzialmente in grado di immagazzinare, rilasciare e moltiplicare l’energia ricevuta. L’economia energetica contemporanea potrebbe anche essere descritta nei termini di una forma di cibernetica totalizzante. Quest’ultima è basata su scambi perpetui di energia umana che, estratta come fosse petrolio o gas da ogni attività cognitiva e digitale attraverso funzioni algoritmiche, è diventata ormai una valuta finanziaria.

“L’attuale abbandono delle energie dei combustibili fossili e la loro graduale sostituzione con le energie rinnovabili”, afferma l’artista Agnieszka Kurant, “sembra coincidere con la smaterializzazione del denaro e la sua parziale sostituzione con le valute digitali, la cui produzione dipende principalmente dall’energia. L’estrazione tradizionale di combustibili fossili e minerali è attualmente accompagnata dall’estrazione di criptovalute, non a caso definite nuove forme di “gas”. Ciò che è essenziale nella produzione di una criptovaluta, ovvero una valuta digitale generata attraverso computer che risolvono problemi matematici, è l’energia che alimenta i server. Il lavoro umano è ancora indispensabile ed è svolto da lavoratori sfruttati nelle miniere, costretti a estrarre i rari metalli della Terra che alimentano i computer. A causa della sua dipendenza dall’energia, la produzione di capitale attraverso l’estrazione di criptovalute è diventata una corsa alle fonti più economiche per alimentare le cosiddette digital farm. Tale produzione di capitale estrattivista ad alta intensità energetica cui assistiamo nel Nord globale ha ripercussioni ambientali nei Paesi del Sud globale”.

La corsa incessante all’estrazione dell’ultima goccia di energia da ogni essere vivente e non vivente ha prodotto nuove forme di schiavitù. Poiché la crisi climatica globale costringe a decarbonizzare e ad affrancarsi dai combustibili fossili, quali possono essere le soluzioni energetiche pulite per mitigare la crisi climatica? Sebbene la produzione e l’uso di energia solare, eolica e idrica sia aumentata negli ultimi decenni, queste forme di energia sostenibile non sembrano essere da sole sufficienti. Recenti ricerche puntano, controintuitivamente, a nuove forme di energia nucleare prodotte utilizzando scorie nucleari come combustibile. I ricercatori del settore sostengono che la fissione nucleare potrebbe co-sostenere il futuro dei sistemi di energia pulita a livello globale. Tuttavia, anche se l’energia nucleare ha statisticamente un impatto inferiore sull’ambiente rispetto ai combustibili fossili, la paura di incidenti nucleari è ancora viva nel dibattito internazionale scientifico, umanistico e artistico. Può quest’ultima essere causata dall’associazione dell’energia nucleare ai danni provocati dai test militari, che hanno devastato ambiente e comunità in luoghi in cui gli esperimenti atomici sono stati più frequenti a partire dagli anni cinquanta?

La memoria storica di queste attività militari si trova attualmente a fare i conti con la concreta possibilità che la transizione nucleare sia un’opzione energetica circolare, controllata e perseguibile contro il collasso climatico. Avvalorano questa ipotesi le più recenti tecnologie dei reattori di nuova generazione e le ricerche su combustibili a base di rifiuti radioattivi (plutonio e uranio impoverito), che riutilizzano non solo gli scarti prodotti dagli stessi reattori, ma anche quelli di altri reattori non di quarta generazione.

“Settant’anni di esperienza nel funzionamento dei reattori nucleari” afferma Stefano Buono, fondatore di newcleo, “hanno dimostrato che è persino possibile utilizzare le scorie nucleari radioattive già esistenti da combustibili nucleari dismessi o bombe per produrre energia nucleare per centinaia di anni senza estrarre altri minerali come l’uranio dalla terra, e farlo a costi competitivi. Una reazione nucleare fornisce 1 milione di volte più energia di qualsiasi reazione chimica e trovare modi per utilizzare questa energia può fornire ciò che è necessario per le generazioni a venire senza impattare sul nostro pianeta producendo anidride carbonica, principale causa del surriscaldamento terrestre”.

Ma si può davvero non tenere conto della paura del nucleare, declinatasi in scenari letterari fantascientifici, nei movimenti attivisti per il disarmo atomico e nei movimenti artistici come Arte nucleare a partire dalla seconda metà del XX secolo e oggi amplificata dalla reiterazione di minacce di guerre atomiche? Fondato a Milano nel 1951 dall’artista italiano Enrico Baj insieme a Sergio Dangelo e Gianni Bertini, il gruppo di Arte nucleare ha celebrato l’energia nucleare ma ha anche messo in guardia sui pericoli ambientali e umani della cattiva applicazione della tecnologia nucleare, facendo esplodere “acqua pesante” realizzata con una nuova tecnica che combinava pittura a smalto e acqua distillata. L’arte nucleare ha influenzato in maniera indiretta anche l’Arte povera, nei termini di una nuova sensibilità verso l’ambiente ma anche di flussi di energia che, scaturendo dalla Terra, rendono continuamente mutevole la materia di cui le opere di Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo e Mario Merz, tra gli altri, si compongono. Abbracciando il modo in cui le particelle subatomiche degli atomi si scontrano, questi artisti hanno reso manifesta l’energia latente nel mondo, incorporando nella loro ricerca la tensione tra natura e cultura. La loro sperimentazione è il preludio di pratiche artistiche contemporanee che si interrogano sulla crisi climatica, sulle coscienze non umane, sulle energie biologiche e computazionali. Il sublime nucleare e la malinconia nucleare attraversano oggi le opere di artisti come Adrián Villar RojasHimali Singh SoinLea PorsagerSophie Cundale e Renato Leotta.

I musei e le istituzioni artistiche come il Castello di Rivoli, e le pratiche artistiche in generale, sono in grado di contestualizzare i dibattiti politici contemporanei sul clima e su una nuova transizione nucleare. Il convegno Culture dell’energia. Energie, immaginari, valute e orizzonti nucleari del pianeta sollecita pertanto una riflessione collettiva sui fattori che influenzano la produzione, la circolazione, il consumo di energia e le opportunità di cambiamento per prepararci a un futuro già prossimo. Ciò che rende particolarmente urgenti queste considerazioni sull’energia è il contesto della crisi energetica globale, iniziata all’indomani della pandemia di COVID-19 e aggravata in Europa dalla minaccia di un embargo energetico dovuto alla guerra in Ucraina. Ciò ha portato a speculazioni, aumento dei prezzi nei mercati del petrolio, del gas e dell’elettricità e inflazione. La crisi energetica, combinata alla crisi climatica, si sta trasformando rapidamente e una transizione verso fonti energetiche alternative a combustibili fossili senza carbonio non è più posticipabile. Il tema dell’energia va affrontato considerando anche quelle economie emergenti che attualmente affrontano una duplice sfida energetica: soddisfare i bisogni di miliardi di persone che ancora non hanno accesso a servizi energetici di base e partecipare contemporaneamente a una transizione verso sistemi energetici a zero emissioni di carbonio per il bene dell’intero pianeta.

Il convegno è a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Agnieszka Kurant.
L’organizzazione del progetto è a cura di Giulia Colletti.

Questo progetto è realizzato grazie al supporto di Stefano Buono.


Castello di Rivoli
Piazza Mafalda di Savoia
10098 Rivoli – Torino
Info: +39 0119565222
come arrivare

Le attività del Castello di Rivoli sono realizzate primariamente grazie al contributo della Regione Piemonte.
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Ufficio Stampa Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
Manuela Vasco | press@castellodirivoli.org | tel. 011.9565209
 
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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Costantinopoli antica

9- La vita a Costantinopoli – Costantinopoli antica

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Ma che cosa doveva essere quella città nei bei tempi della gloria ottomana! Io non potevo levarmi dalla testa questo pensiero. Allora, dal Bosforo tutto bianco di vele, non s’alzava un nuvolo di fumo nero a macchiar l’azzurro del cielo e delle acque. Nel porto e nei seni del Mar di Marmara, fra le vecchie navi da guerra, dalle alte poppe scolpite, dalle mezzelune d’argento, dagli stendardi di porpora, dai fanali d’oro, galleggiavano carcasse fracassate e insanguinate di galere genovesi, veneziane e spagnole. Sul Corno d’oro non v’erano ponti: da una sponda all’altra guizzava perpetuamente una miriade di barchette pompose, in mezzo alle quali spiccavano di lontano le lance bianchissime del serraglio, coperte di baldacchini scarlatti dalle frange dorate, e condotte da rematori vestiti di seta. Scutari era ancora un villaggio; di là da Galata non si vedevano che case sparpagliate per la campagna; nessun grande palazzo alzava ancora la testa sopra la collina di Pera; l’aspetto della città era meno grandioso che non è ora; ma era più schiettamente orientale. La legge che prescriveva i colori essendo ancora in vigore, dai colori delle case si riconosceva la religione degli abitanti: Stambul era tutta gialla e rossa, fuorché gli edifizi pubblici e sacri ch’erano bianchi come la neve; i quartieri armeni erano cinerini chiari, i quartieri greci cinerini carichi, i quartieri ebrei pavonazzi. Era universale, come in Olanda, la passione dei fiori, e i giardini parevano grandi mazzi di giacinti, di tulipani e di rose. La vegetazione rigogliosa delle colline non essendo ancora atterrata dai nuovi sobborghi, Costantinopoli presentava l’immagine d’una città nascosta in una foresta. Dentro non c’eran che viuzze; ma le abbelliva una folla meravigliosamente pittoresca. Non si vedevano che turbanti enormi, che davano alla popolazione mascolina un’apparenza colossale e magnifica. Tutte le donne, fuor che la madre del sultano, essendo rigorosamente velate, e in modo da non lasciar vedere che gli occhi, formavano una popolazione a parte, anonima ed enigmatica, che spandeva per tutta la città un’aura di mistero gentile. Una legge severa determinando il vestiario di tutti, si distinguevano dalle forme dei turbanti e dai colori dei caffettani i ceti, i gradi, gli uffici, le età, come se Costantinopoli fosse un’immensa corte. Il cavallo essendo ancora quasi «il solo cocchio dell’uomo», giravano per le vie migliaia di cavalieri, e le lunghe file dei cammelli e dei dromedari dell’esercito che attraversavano la città in tutte le direzioni le davano l’aspetto selvaggio e grandioso d’un’antica metropoli asiatica. Le arabà dorate, tratte dai buoi, s’incrociavano colle carrozze rivestite di panno verde degli ulemi, con quelle rivestite di panno rosso dei Kadì-aschieri, colle talike leggerissime dalle tendine di raso, colle bussole ornate di pitture fantastiche. Schiavi di tutti i paesi, dalla Polonia all’Etiopia, passavano a frotte, facendo risuonare le loro catene ribadite sui campi di battaglia. Sui crocicchi, nelle piazze, nei cortili delle moschee, si vedevano gruppi di soldati vestiti di cenci gloriosi, che mostravano le braccia monche e le cicatrici ancor fresche delle ferite toccate a Vienna, a Belgrado, a Rodi, a Damasco. Centinaia di rapsodi dalla voce tonante e dal gesto ispirato raccontavano, in mezzo a crocchi di musulmani superbi, le gesta degli eserciti che combattevano a tre mesi di marcia da Stambul. I pascià, i bey, gli agà, i musselim, un’infinità di dignitari e di gran signori, vestiti con uno sfarzo teatrale, accompagnati da frotte di servi, fendevano la folla che si curvava al loro passaggio come una messe sotto il soffio del vento; passavano, con un corteo da principi, ambasciatori di tutti gli Stati d’Europa, venuti a chieder pace o alleanza; sfilavano carovane cariche di doni di re africani ed asiatici; sciami di silidar e di spahì fastosi e insolenti, trascinavano per le vie i sciaboloni macchiati del sangue di venti popoli, e i bei paggi greci ed ungheresi del serraglio, vestiti come piccoli re, passeggiavano alteramente fra la moltitudine ossequiosa, che rispettava in loro i capricci snaturati del suo Signore. Qua e là, dinanzi alle porte, si vedeva un trofeo di bastoni nodosi: era un corpo di guardia di Giannizzeri, che allora esercitavano la polizia nell’interno della città. S’incontravano degli ebrei che portavano nel Bosforo il corpo dei giustiziati; si trovava ogni mattina nel Balik-bazar qualche cadavere disteso in terra, con la testa sotto l’ascella destra, la sentenza sul petto e una pietra sulla sentenza; si vedevano per le vie nobili impiccati al primo gancio o alla prima trave che avevano trovata i carnefici frettolosi; s’inciampava di notte in qualche disgraziato buttato in mezzo alla strada da una stanza di tortura dove gli avevano spezzato i piedi e le mani con una mazza; si vedevano sotto il sole di mezzogiorno dei mercanti colti in frode inchiodati per un orecchio all’uscio della loro bottega. E non c’essendo ancora la legge che restrinse poi la libertà sconfinata delle sepolture, si vedevano scavar fosse e sotterrar morti, ad ogni ora del giorno, nei giardini, nei vicoli, nelle piazze, dinanzi alle porte delle case. Si sentivano nei cortili gli urli dei montoni e degli agnelli scannati in olocausto ad Allà per le nascite e per le circoncisioni. A quando a quando passava di galoppo un drappello d’eunuchi gridando e minacciando, le vie si facevano deserte, le porte si chiudevano, le finestre si coprivano, un intiero quartiere pareva morto: e allora passavano in una fila di carrozze luccicanti le belle del Gran Signore, che empievano l’aria di profumi e di risa. Qualche volta un personaggio della corte, attraversando una strada affollata, impallidiva improvvisamente alla vista di sei popolani di meschina apparenza che entravano in una bottega: quei sei popolani erano il sultano, quattro ufficiali e un carnefice, che giravano di bottega in bottega per verificare i pesi e le misure. In tutto quanto il corpo enorme di Costantinopoli ribolliva una vita pletorica e febbrile. Il tesoro riboccava di gemme, gli arsenali, d’armi, le caserme, di soldati, i caravanserai, di viaggiatori; il mercato di schiavi era un formicaio di belle, di mercantesse e di gran signori; i dotti s’affollavano nei grandi archivi delle moschee; i visir dalla lunga lena preparavano alle generazioni future gli annali sterminati dell’impero; i poeti, pensionati dal serraglio, si raccoglievano nei bagni a cantare le guerre e gli amori imperiali; turbe d’operai bulgari ed armeni lavoravano ad innalzar moschee con blocchi di granito d’Egitto e di marmo di Paros, mentre per mare arrivavano le colonne dei tempi dell’Arcipelago e per terra le spoglie delle chiese di Pest e di Ofen; nel porto si allestivano le flotte di trecento vele che dovevano portare il terrore su tutte le rive del Mediterraneo; fra Stambul e Adrianopoli si spandevano cavalcate di settemila falconieri e di settemila guardacaccia, e negl’intervalli delle rivolte soldatesche, delle guerre lontane, degli incendi che riducevano in cenere ventimila case in una notte, si celebravano feste di trenta giorni dinanzi ai plenipotenziari di tutti gli stati dell’Affrica, dell’Asia e dell’Europa. Allora l’entusiasmo musulmano diventava follia. Al cospetto del Sultano e della corte, in mezzo a quelle smisurate palme di nozze, cariche d’uccelli, di frutti e di specchi, per dar passo alle quali si atterravano le case e le mura; in mezzo a file di leoni e di sirene di zucchero, portati da cavalli ingualdrappati di damasco argentato; in mezzo a monti di doni reali recati da tutte le parti dell’Impero e da tutte le corti del mondo, si alternavano le finte battaglie dei giannizzeri, i balli furiosi dei dervis, le mischie sanguinose dei prigionieri cristiani, i banchetti popolari di diecimila piatti di cuscussù; nell’Ippodromo danzavano gli elefanti e le giraffe; si sguinzagliavano tra la folla gli orsi e le volpi coi razzi alla coda; alle pantomime allegoriche succedevano le danze lascive, le mascherate grottesche, le processioni fantastiche, le corse, i carri simbolici, i giochi, le commedie, le ridde; la festa degenerava a poco a poco, col calar della notte, in un tumulto forsennato, e cinquecento moschee scintillanti di lumi formavano sopra la città un’immensa aureola di foco che annunziava ai pastori delle montagne dell’Asia e ai naviganti della Propontide, le orge della nuova Babilonia. Così era Stambul, la sultana formidabile, voluttuosa e sfrenata; appetto alla quale la città d’oggi non è più che una vecchia regina malata d’ipocondria.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.