9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I teatri

9- La vita a Costantinopoli – I teatri

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

14


A Costantinopoli, chi è molto forte di stomaco, può passar la sera al teatro, e può scegliere tra una canaglia di teatruccoli d’ogni specie, molti dei quali sono insieme giardini e birrerie, e in qualcuno si ritrova sempre la commedia italiana, o piuttosto una muta di attori italiani, i quali fanno spesso desiderare di veder convertita la platea in un vasto mercato di frutta verde. I turchi, però, frequentano di preferenza i teatri in cui certe francesi imbellettate, scollacciate e sfrontate, cantano delle canzonette coll’accompagnamento d’un’orchestra da galera. Uno di questi teatri era allora l’Alhambra, posto nella gran via di Pera: un lungo stanzone, sempre affollato, e tutto rosso di fez dal palco scenico alla porta. Che cosa fossero quelle canzonette e con che razza di gesti quelle intrepide signore s’ingegnassero di farne capire ai turchi i significati riposti, non si può né immaginare né credere. Solo chi è stato al teatro los Capellanes di Madrid, può dire d’aver sentito e visto qualchecosa di simile. Agli scherzi più procaci, ai gesti più impudenti, tutti quei turconi, seduti in lunghe file, prorompevano in grasse risa; e cadendo allora dalle loro facce la maschera della dignità abituale, vi appariva tutto il fondo della loro natura e tutti i segreti della loro vita grossolanamente sensuale. Eppure, non v’è nulla che il turco nasconda abitualmente così bene come la sensualità della sua natura e della sua vita. Per le strade, l’uomo non s’accompagna mai alla donna; raramente la guarda; più raramente ne parla; ritiene quasi come un’offesa che gli si domandi notizia delle sue mogli; a giudicar dalle apparenze, si direbbe che quel popolo sia il più casto e il più austero della terra. Ma sono mere apparenze. Quello stesso turco che arrossisce fino alle orecchie se gli si domanda come sta la sua sposa, manda i suoi bimbi e le sue bimbe a sentire le turpissime oscenità di Caragheus, che corrompe la loro fantasia prima che si siano svegliati i loro sensi; ed egli stesso dimentica sovente le dolcezze dell’arem per le voluttà nefande di cui diede il primo esempio famoso Baiazet la folgore, e non l’ultimo, probabilmente, Mahmut il riformatore. E quando non ci fosse altro, basterebbe quel Caragheus a dare nello stesso tempo un’immagine e una prova della profonda corruzione che si nasconde sotto il velo dell’austerità musulmana. È una figurina grottesca che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d’ombra cinese, che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è un quissimile, ma depravato, di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro, sboccato come una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d’entusiasmo l’uditorio con ogni sorta di lazzi, di bisticci e di gesticolamenti stravaganti, che sono o nascondono ordinariamente un’oscenità. E di che natura siano queste oscenità, è facile immaginarlo quando si sappia che se Caragheus nello spirito somiglia a Pulcinella, nel corpo somiglia a Priapo; della quale somiglianza, prima che la censura restringesse d’alquanto la sua libertà sconfinata, egli dava tratto tratto la prova visibile alla platea, e spesso tutta la commedia girava sopra questo nobilissimo perno.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Chiasso (Svizzera), Spazio Officina: L’opera grafica CARMINA BURANA di Giuliano Collina

Spazio Officina

L’opera grafica CARMINA BURANA di Giuliano Collina

mostra a cura di
Roberto Borghi
Nicoletta Ossanna Cavadini

01.10. – 03.12.2023

Inaugurazione sabato 30.09.2023, ore 18.00

Inserita nel filone degli approfondimenti tematici di artisti contemporanei legati per nascita o per operatività al territorio insubrico, la mostra che si tiene allo Spazio Officina propone un focus su un’importante opera grafica di Giuliano Collina, Carmina Burana. Il titolo si lega per tema in maniera diretta all’omonimo componimento storico, conosciuto al grande pubblico perlopiù per la celebre cantata scenica composta da Carl Orff fra il 1935 e 1936.

Giuliano Collina, artista dai variegati e profondi interessi culturali, ha realizzato nel 2004 una raffinata cartella di dieci incisioni a grande formato ad acquaforte e acquatinta, scaturita dalla suggestione del componimento poetico e interpretato artisticamente con grande spirito creativo. Tutte le opere della cartella grafica Carmina Burana, le matrici e le prove di stato oltre che i disegni, sono stati donati all’Archivio del m.a.x. museo dalla collezionista Milly Brunelli Pozzi e dall’artista Giuliano Collina.

La mostra, curata da Roberto Borghi e Nicoletta Ossanna Cavadini, presenta, oltre all’intera cartella grafica delle dieci acquaforti e acquatinte, le venti matrici in rame che hanno permesso la stampa dell’opera con una raffinata tecnica eseguita nella stamperia d’arte di Paolo Aquilini e i quarantacinque stati preparatori fino al “bon à tirer”. In mostra sono anche esposti dieci grandi disegni riferiti ad ogni tavola, realizzati a matita, china, acquerello e collage su carta. In questo modo è possibile assistere allo svolgimento del processo creativo da cui è stata generata ogni opera grafica: viene così alla luce il modo in cui il linguaggio pittorico di Collina, attraverso anche i significativi ripensamenti, riconfigura la materia letteraria secondo dei principi anzitutto cromatici.

Nato a Intra nel 1938, Giuliano Collina si è diplomato all’Accademia di Brera nei primi anni Sessanta e ha da sempre il suo studio a Como. Accanto all’attività artistica ha sviluppato una lunga esperienza di docente che lo ha portato a insegnare all’Accademia Cignaroli di Verona e all’Università dell’Insubria di Como, e a collaborare al corso di Mario Botta presso l’Accademia di architettura di Mendrisio. Pittore che si è dedicato anche alla scultura, ha coltivato uno speciale interesse per il linguaggio dell’incisione in cui raggiunge livelli di pura lirica. 

Quale evento collaterale alla mostra, il Cinema Teatro di Chiasso propone sabato 7 ottobre 2023, ore 20.30, un concerto dedicato al capolavoro di Carl Orff Carmina Burana per Soli, Coro misto, Coro di voci bianche e Orchestra, diretto da Riccardo Bianchi.


Informazioni per la stampa:
Ufficio stampa Svizzera                                            
Laila Meroni Petrantoni                                             
m.a.x. museo                                                             
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M. +41 76 563 34 77                                                   
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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Italiani

9- La vita a Costantinopoli – Gli Italiani

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

13


La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più prospere. Ha pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell’Italia meridionale che non trovano lavoro, ed è la colonia più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perché i suoi giornali non fanno che nascere e morire. Quando c’ero io, s’aspettava l’apparizione del Levantino, ed era uscito intanto un numero di saggio, che annunziava i titoli accademici e i meriti speciali del direttore: settantasette in tutto, senza contare la modestia. Bisogna passeggiare la mattina della domenica in via di Pera, quando le famiglie italiane vanno alla messa. Si sentono parlare tutti i dialetti d’Italia. Io mi ci godevo; ma non sempre. Qualche volta sentivo quasi pietà al vedere tanti miei concittadini senza patria, molti dei quali dovevano esser stati sbalestrati là chi sa da che avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai più riveduta l’Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare che un’immagine confusa d’un paese caro e lontano; quelle ragazze di cui molte dovevano forse sposare uomini d’un’altra nazione, e fondar famiglie in cui non sarebbe rimasto altro d’italiano che il nome e le memorie della madre. Vedevo delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini dell’Acquasola, dei bei visetti napoletani, delle testine capricciose che mi pareva d’aver incontrate cento volte sotto i portici di Po o sotto la Galleria di Milano. Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di rosa, metterle in un bastimento e ricondurle in Italia filando quindici nodi all’ora. Come curiosità, avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua italiana che si parla a Pera dagl’italiani nati nella colonia; e specialmente da quelli della terza o della quarta generazione. Un accademico della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d’oro. È un italiano già bastardo, screziato d’altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il curioso è che, in mezzo agl’infiniti barbarismi, si sentono dire di tratto in tratto, da coloro che hanno qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d’Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. Ma appetto agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni dicitori. Ce n’è di quelli che non si capiscono quasi più. Un giorno fui accompagnato non so dove da un giovanetto italiano di sedici o diciassette anni, amico d’un mio amico, nato a Pera. Per strada, attaccai discorso. Mi parve che non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole tronche, abbassando la testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa. – Via che cos’ha? – gli domandai. – Ho – rispose sospirando – che parlo tanto male! – Continuando a discorrere, in fatti, m’accorsi che balbettava un italiano bizzarro, pieno di parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante a quella così detta lingua franca, la quale, come disse un bell’umore francese, consiste in un certo numero di vocaboli e di modi italiani, spagnoli, francesi, greci, che si buttano fuori l’un dopo l’altro rapidissimamente, finché se ne imbrocca uno che sia capito dalla persona che ascolta. Questo lavoro, però, occorre raramente di farlo a Pera e a Galata, dove un po’ d’italiano lo capiscono e lo parlano quasi tutti, compresi i turchi. Ma è lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente parlata, se si può dir parlata. La lingua più comunemente usata scrivendo è la francese. Letteratura italiana non ce n’è. Mi ricordo soltanto d’aver trovato un giorno, in un caffè di Galata affollato di negozianti, in fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in italiano, sotto le notizie della Borsa, otto versetti malinconici, che parlavano di zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh, povero poeta! Mi parve di veder lui, in persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse con quei versi il suo ultimo fiato.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli

9- La vita a Costantinopoli

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L ’arrivo
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Il ponte
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Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

12


In casa del mio buon amico Santoro si radunavano ogni sera molti italiani: avvocati, artisti, medici, negozianti, coi quali passai delle ore carissime. Quella era una conversazione! Se fossi stato stenografo, avrei potuto cavarne ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un arem, il pittore ch’era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià, l’avvocato che aveva difeso una causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico che aveva stretto il nodo d’un amoretto internazionale, raccontavano le loro avventure, ed ogni racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali. Ogni momento se ne sentiva una nuova. Arrivava uno: – Sapete quello che è seguito stamani? Il Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. – Arrivava un altro: – Avete inteso la notizia? Il governo, dopo tre mesi, ha finalmente pagato gli stipendi agli impiegati, e Galata è inondata da un torrente di monete di rame. – Arrivava un terzo, e raccontava che un turco presidente di tribunale, irritato delle cattive ragioni colle quali un cattivo avvocato francese difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza di tutto l’uditorio: – Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per far parer buona la tua causa; la… – e aveva pronunziato in tutte lettere la parola di Cambronne – per quanto la si volti e la si rivolti, è sempre… – e aveva pronunziato un’altra volta quella parola. La conversazione, naturalmente, spaziava in un campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con cui si parla fra noi di persone e di cose di Parigi, di Vienna, di Ginevra, là si parlava di persone e di cose di Tiflis, di Trebisonda, di Teheran, di Damasco, dove uno aveva un amico, un altro c’era stato, un terzo ci voleva andare; io mi sentivo nel centro d’un altro mondo, e tutt’intorno mi si aprivano nuovi orizzonti. E qualche volta pensavo con rammarico al giorno in cui avrei dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia vita ordinaria. Come potrò più adattarmi – dicevo tra me – a quei soliti discorsi e a quei soliti casi? E questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha vissuto quella vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme. È una vita più leggiera, più facile, più giovanile di quella d’ogni altra città d’Europa. Quel viver là come accampati in un paese straniero, in mezzo a un succedersi continuo d’avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll’infondere un certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose mondane, che somiglia molto alla fede fatalistica dei musulmani, e dà una certa serenità spensierata d’avventurieri. L’indole di quel popolo che vive, come disse un poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte, considerando la vita come un pellegrinaggio, durante il quale né c’è tempo né mette conto di prefiggersi dei grandi scopi da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco a poco anche all’europeo, e lo riduce a vivere un po’ alla giornata, senza frugar troppo dentro sé stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è possibile, la parte semplice e riposata di spettatore. L’aver che fare con popoli tanto diversi, e il dover pensare e parlare un po’ a modo di tutti, dà allo spirito una certa leggerezza che lo fa come sorvolare a molti sentimenti ed idee, a cui noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il mondo, e per ottenerlo, e del non poterlo ottenere, ci affanniamo. Oltreché la presenza del popolo musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo di tutti i giorni, che rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte cure. E a questo giova anche la forma della città assai più che non potrebbero fare le città nostre, nelle quali lo sguardo e il pensiero è quasi sempre come imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là, ad ogni tratto, occhio e mente trovano una scappatoia per la quale si slanciano a immense lontananze ridenti. E c’è infine una illimitata libertà di vita, concessa dalla grandissima varietà dei costumi: là tutto si può fare, nulla stupisce; la notizia della cosa più strana muore appena uscita in quell’immensa anarchia morale; gli europei vivono là come in una confederazione di repubbliche; vi si gode la libertà che si godrebbe in qualunque città europea nel momento d’un grande trambusto; è come un veglione interminabile o un perpetuo Martedì Grasso. Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città, che non si può abitare un certo tempo, senza ricordarla poi con un sentimento quasi di nostalgia; per questo gli europei l’amano ardentemente e vi mettono radici profonde; ed è giusto in questo senso il chiamarla come i turchi «la fata dai mille amanti» o dire col loro proverbio che chi ha bevuto dell’acqua di Top-hané, – non c’è più rimedio, – è innamorato per la vita.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


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Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La notte

9- La vita a Costantinopoli – La notte

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L ’arrivo
Cinque ore dopo
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Il Bosforo

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Costantinopoli è di giorno la città più splendida e di notte la città più tenebrosa d’Europa. Pochi fanali, a gran distanza l’un dall’altro, rompono appena l’oscurità nelle vie principali; le altre son buie come spelonche, e non vi è chi ci s’arrischi senza un lume alla mano. Perciò, col cader della notte, la città si fa deserta; non si vedono più che guardie notturne, frotte di cani, peccatrici furtive, qualche brigata di giovanotti che sbuca dalle birrerie sotterranee, e lanterne misteriose che appariscono e spariscono, come fuochi fatui, qua e là per i vicoli e pei cimiteri. Allora bisogna contemplare Stambul dai luoghi alti di Pera e di Galata. Le innumerevoli finestrine illuminate, i fanali dei bastimenti, i riflessi del Corno d’oro e le stelle, formano sopra un orizzonte di quattro miglia un immenso tremolio di punti di foco, in cui si confondono il porto, la città ed il cielo, e par tutto firmamento. E quando il cielo è nuvoloso e in un piccolo spazio sereno splende la luna, si vedono sopra Stambul tutta scura, sopra le macchie nerissime dei boschi e dei giardini, biancheggiare le moschee imperiali, come una fila di enormi tombe di marmo, e la città presenta l’immagine della necropoli d’un popolo di giganti. Ma è anche più bella e più solenne nelle notti senza stelle e senza luna, nell’ora in cui tutti i lumi son spenti. Allora non si vede che un’immensa macchia nera dal Capo del Serraglio al sobborgo d’Eyub, un profilo smisurato in cui le colline sembran montagne, e le punte infinite che le coronano, pigliano apparenze fantastiche di foreste, di eserciti, di rovine, di castelli, di rocce, che fanno vagare la mente nelle regioni dei sogni. In queste notti oscure, è bello il contemplare Stambul da un’alta terrazza e abbandonarsi alla propria fantasia: penetrar col pensiero in quella grande città tenebrosa, scoperchiare quella miriade di arem rischiarati da una luce languente, veder le belle favorite che tripudiano, le abbandonate che piangono, gli eunuchi frementi che tendono l’orecchio alle porticine; seguire gli amanti notturni per i labirinti dei vicoli montuosi; girare per le gallerie silenziose del gran bazar, passeggiare per i vasti cimiteri deserti, smarrirsi in mezzo alle innumerevoli colonne delle grandi cisterne sotterranee; raffigurarsi d’esser rimasti chiusi nella gigantesca moschea di Solimano e di far risonare le navate oscure di grida di spavento e d’orrore strappandosi i capelli e invocando la misericordia di Dio; e poi tutt’a un tratto esclamare: – Che baie! Sono sulla terrazza del mio amico Santoro, e nella sala di sotto m’aspetta una cena da sibarita in compagnia dei più amabili capi ameni di Pera.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

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Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Editoria: “Il magico mondo di Sandy” di Daniela Viviano

Breve estratto

“Sagana: -Tieni questo bracciale! Non toglierlo mai, intesi? Il bracciale nasconderà la voglia a forma di fiore che hai al polso. Sai bene che quella voglia ti contraddistingue come una strega delle paludi a tutti gli effetti. –

 Sandy: -Non lo toglierò mai, te lo prometto! -.”

Un viaggio fantastico che l’autrice dedica a tutti gli adolescenti di oggi

Il magico mondo di Sandy è un romanzo fantasy.
È la storia di una fatina di nome Sandy che dopo essere venuta a conoscenza della sua vera identità, quella di fata e non di strega, un’identità che le è sempre stata negata per turpi fini, intraprende un viaggio avventuroso alla ricerca delle sue vere radici.
Nel suo intrepido viaggio non sarà da sola, ma per sua fortuna potrà godere della compagnia e della forza di quattro simpatiche maghette e di un bizzarro e affascinante elfo che scoprirà ben presto essere la sua anima gemella.
Il magico modo di Sandy non è solo un viaggio iniziatico di un essere sovrannaturale, ma anche la metafora di un viaggio di crescita di una preadolescente che scoprirà grazie al suo coraggio e all’aiuto di amici veri, quella che è la sua vera essenza, un’essenza magica con la quale sarà in grado di sconfiggere il male in nome del Bene.

Daniela Viviano – Biografia

Regista, autrice, attrice e lettrice professionista, leader yoga della risata, clown-dottore, improvvisatrice teatrale con teatro–ragazzi, marionette, letture animate e fiabe per pubblico di infanzia, regista di cene col delitto, monologhi comici e riflessivi al femminile e docente per un pubblico adulto.
Ha pubblicato una sua fiaba con la casa editrice Pagine di Roma, che è stata inserita nella collana “l’Antologia delle fiabe dei nonni e delle nonne”.
Sul sito www.fiabeadomicilio.com realizza fiabe personalizzate cartacee per adulti e bambini.
Ha realizzato un fumetto con la disegnatrice Chiara Romagnoli per bambini dal titolo “In volo con Nenè”.
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Il romanzo Il mondo magico di Sandy dell’autrice Daniela Viviano è disponibile in versione cartacea su Amazon:


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

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A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore) e – qualora non fosse di per sé chiaro – specifichiamo che sono state fornite a Experiences S.r.l. dagli Organizzatori o dagli Uffici Stampa degli eventi, esclusivamente per accompagnarne segnalazioni o articoli inerenti.Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – L’ozio

9- La vita a Costantinopoli – L’ozio

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

10


Benché in qualche ora del giorno Costantinopoli paia molto operosa, in realtà è forse la città più pigra dell’Europa. Per questo, turchi e franchi si possono dare la mano. Si levano tutti il più tardi possibile. Anche d’estate, all’ora in cui le nostre città son già in movimento da un capo all’altro, Costantinopoli dorme ancora. Prima che il sole sia alto, è difficile trovare una bottega aperta e poter bere una tazza di caffè. Alberghi, uffici, bazar, banche, tutto russa allegramente, e non si scuoterebbe nemmeno col cannone. S’aggiungano le feste: il venerdì dei turchi, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani, i santi innumerevoli dei calendari greci ed armeni, osservati scrupolosamente; tutte feste che, sebbene siano parziali, costringono all’ozio anche una parte della popolazione che v’è straniera; e s’avrà un’idea del lavoro che può fare Costantinopoli nel giro di sette giorni. Vi sono degli uffici che non stanno aperti più di ventiquattr’ore per settimana. Ogni giorno v’è uno dei cinque popoli della grande città che va a zonzo per le strade, in abito festivo, senz’altro pensiero che d’ammazzare il tempo. In quest’arte i turchi sono maestri. Son capaci di far durare per una mezza giornata una tazza di caffè da due soldi e di star cinque ore immobili ai piedi d’un cipresso d’un cimitero. Il loro ozio è veramente l’ozio assoluto, fratello della morte come il sonno, un riposo profondo di tutte le facoltà, una sospensione di tutte le cure, un modo di esistenza affatto sconosciuto agli europei. Non vogliono nemmeno aver il pensiero di passeggiare. A Stambul non ci sono passeggi fatti espressamente, e se ci fossero, il turco non ci andrebbe, perché l’andare apposta in un luogo determinato per far del movimento, gli parrebbe una specie di lavoro. Egli entra nel primo cimitero o infila la prima strada che gli si presenta, e va senza proposito dove lo portano le gambe, dove lo conducono i serpeggiamenti del sentiero, dove lo trascina la folla. Raramente egli va in un luogo per vedere il luogo. Vi sono dei turchi di Stambul che non sono mai andati più in là di Kassim-pascià, dei signori musulmani che non si sono mai spinti oltre le isole dei Principi dove hanno un amico, e oltre il Bosforo dove hanno una villa. Per loro il colmo della beatitudine consiste nell’inerzia della mente e del corpo. Perciò lasciano ai cristiani irrequieti le grandi industrie che richiedono cure, passi e viaggi; e si ristringono al commercio minuto, che si può esercitar da seduti, e quasi più cogli occhi che col pensiero. Il lavoro che fra noi è quello che signoreggia e regola tutte le altre occupazioni della vita, là è subordinato, come un’occupazione secondaria, a tutti i comodi e a tutti i piaceri. Qui, il riposo non è che un’interruzione del lavoro; là il lavoro non è che una sospensione del riposo. Prima bisogna a qualunque costo dormicchiare, sognare, fumare, quelle tante ore; e poi, nei ritagli di tempo, far qualche cosa per procacciarsi la vita. Il tempo, per i turchi, significa tutt’altra cosa da quel che significa per noi. La moneta giorno, mese, anno, per loro non ha che la centesima parte del valore che ha in Europa. Il minor tempo che domandi un impiegato d’un ministero turco per dare una qualunque risposta intorno al più semplice affare, è un paio di settimane. La premura di finire una cosa per il piacere di finirla, non sanno che cosa sia. Dai facchini all’infuori, non si vede mai per le vie di Stambul un turco affaccendato che affretti il passo. Tutti camminano colla stessa cadenza, come se misurassero tutti l’andatura al suono d’uno stesso tamburo. Per noi la vita è un torrente che precipita; per loro è un’acqua che dorme.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – L ’esercito

9- La vita a CostantinopoliL ’esercito

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

9


Benché sapessi, prima d’arrivare a Costantinopoli, che non ci avrei più ritrovato traccia dello splendido esercito dei bei tempi antichi, pure, appena arrivato, cercai con vivissima curiosità i soldati, mia perpetua simpatia. Ma, pur troppo, trovai la realtà peggiore dell’aspettazione. In luogo delle antiche vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate, i calzoni rossi, le giacchettine scarse, i galloni da usciere, i cinturini da collegiale, e su tutte le teste, da quella del Sultano a quella del soldato, quel deplorabile fez, che oltre ad esser meschino e puerile, in specie sul cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d’infinite oftalmie ed emicranie. L’esercito turco non ha più la bellezza d’un esercito turco, non ha ancora la bellezza d’un esercito europeo; i soldati mi parvero tristi, svogliati e sudici; saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro educazione, mi basta questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in mezzo alla strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte, dove è proibito di fumare, strappar il sigaro di bocca a un viceconsole; e che nella moschea dei dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me presente, per far capire a tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e tre con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi, il meno che possa capitare è d’essere abbracciati come un sacco di cenci e portati di peso nel corpo di guardia. Per la qual cosa, in tutto il tempo che rimasi a Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati. E d’altra parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere, dopo aver visto coi miei occhi che cosa è quella gente prima di vestir l’uniforme. Vidi un giorno passare per una strada di Scutari un centinaio di reclute che venivano probabilmente dall’interno dell’Asia Minore. Mi fecero compassione e ribrezzo. Mi parve di vedere quegli spaventosi banditi d’Hassan il pazzo, che attraversarono Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar a morire sotto la mitraglia austriaca nella pianura di Pest. Vedo ancora quelle facce sinistre, quelle lunghe ciocche di capelli, quei corpi seminudi e arabescati, quegli ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono nella via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito a loro. – Debbono essere i miei amici di Scutari, – dissi in cuor mio. Essi però sono l’unica immagine pittoresca che mi sia rimasta de’ soldati musulmani. Belli eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi potesse rivedere per un minuto, dall’alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-Pascià! Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale d’Adrianopoli, quei belli eserciti mi si affacciavano alla mente come una visione luminosa, e mi soffermavo a contemplare la porta, come se di momento in momento dovesse apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere imperiali.

Il pascià quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell’esercito, con due code di cavallo, insegna della sua dignità. Dietro a lui, si vedeva di lontano un vivissimo luccichio. Erano ottomila cucchiai di rame confitti nei turbanti di ottomila giannizzeri, in mezzo ai quali ondeggiavano le penne d’airone e scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi di armi e di vivande. Dietro ai giannizzeri veniva un piccolo esercito di volontari e di paggi, colle vesti di seta, colle maglie di ferro, coi caschi luccicanti, accompagnati da una banda di musici; dietro ai paggi, i cannonieri, coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di agà, di paggi, di ciambellani, di soldati feudatari, piantati sopra cavalli corazzati e impennacchiati. E questa non era che l’avanguardia. Sopra le schiere serrate sventolavano stendardi di mille colori, ondeggiavano code di cavallo, s’urtavano lance, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali si vedevano appena le facce annerite dal sole delle guerre di Candia e di Persia; e i suoni scordati dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle timballe, la voce dei cantanti che accompagnavano i giannizzeri, il tintinnio delle armature, lo strepito delle catene, le grida di: Allà, si confondevano in un frastuono festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià si spandeva fino all’altra riva del Corno d’oro.

Oh! pittori e poeti che avete studiato amorosamente quel bel mondo orientale, svanito per sempre, aiutatemi a far uscir intero dalle vecchie mura di Stambul l’esercito favoloso di Maometto III.

L’avanguardia è passata: un altro sfolgorio s’avanza. È il Sultano? No, il Nume non è forse ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del visir favorito. Sono quaranta agà vestiti di zibellino, su quaranta cavalli dalle gualdrappe di velluto e dalle redini d’argento, a cui tiene dietro una folla di paggi e di palafrenieri pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati d’oro, carichi di scudi, di mazze e di scimitarre.

Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora il Sultano. Sono i membri della Cancelleria di Stato, i grandi dignitari del Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori e da uno sciame di volontari coi berretti purpurei ornati d’ali d’uccelli, vestiti di pellicce, di taffettà incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak ungheresi, e armati di lunghe lance fasciate di seta e inghirlandate di fiori.

Un’altra onda di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d’Adrianopoli. Non è ancora il Sultano. È il corteo del gran visir. Vien prima una folla d’archibugieri a cavallo, di furieri e d’agà benemeriti del gran Signore, e poi altri quaranta agà del gran visir in mezzo a una foresta di mille e duecento lance di bambù impugnate da mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran visir vestiti di color ranciato e armati d’archi e di turcassi ricamati d’oro, e altri duecento giovanetti divisi in sei schiere di sei colori, in mezzo ai quali cavalcano governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una turba di palafrenieri, d’armigeri, d’impiegati, di servi, di paggi, d’agà dalle vesti dorate e di vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya, ministro dell’interno, in mezzo a dodici sciaù, esecutori di giustizia, seguiti dalla banda del gran visir.

Un’altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il Sultano. È una folla di sciaù, di furieri, d’impiegati, vestiti di assise splendide, che fanno corteo ai giureconsulti, ai mollà, ai muderrì, a cui tiene dietro il gran cacciatore per le cacce al falcone, all’avvoltoio, allo sparviero ed al nibbio, seguito da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi ammaestrati alla caccia, e da una processione di falconieri, di scudieri, di squartatori, di guardiani di furetti, di drappelli di trombettieri e di mute di cani ingualdrappati e ingioiellati.

Un’altra folla compare. Gli spettatori accalcati si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il Sultano; non è la testa, ma il cuore dell’esercito; il focolare del coraggio e dell’ira sacra, l’arca santa, il carroccio dei musulmani, intorno a cui s’alzeranno mucchi di cadaveri e scorreranno torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta, l’insegna delle insegne, tolta alla moschea del Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba feroce di dervis coperti di pelli d’orso e di leone, in mezzo a una corona di sceicchi predicatori dall’aspetto ispirato, ravvolti in mantelli di pelo di cammello; fra due schiere d’emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti verdi, che levano tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di evviva, di ruggiti, di preghiere, di canti.

Esce un’altra ondata d’uomini e di cavalli. Non è ancora il Sultano. È uno stuolo di sciaù che brandiscono i loro bastoni inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice d’Asia e d’Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della folla; sono il visir favorito e il visir caimacan, coi turbanti stelleggiati d’argento e gallonati d’oro; sono tutti i visir del divano, dinanzi ai quali ondeggiano le code di cavallo tinte di henné, appese in cima a lance rosse ed azzurre; e infine i giudici dell’esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli di leopardo e armati di stocco, e paggi e armigeri e vivandieri.

Un altro barbaglio di colori e di splendori annunzia un altro corteo: è il Sultano finalmente! Non è ancora il Sultano. È il gran visir, vestito d’un caffettano purpureo foderato di zibellino; montato sopra un cavallo coperto d’acciaio e d’oro, seguito da uno sciame di servi in abito di velluto rosso, attorniato da una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei giannizzeri, fra i quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno stormo di pavoni; e dietro a costoro, fra due schiere di lancieri dai giustacuori dorati, fra due file d’arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i palafrenieri sfarzosi del serraglio che conducono per mano una frotta di cavalli arabi, turcomanni, persiani, caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia, dalle redini dorate, dalle staffe damaschinate, carichi di scudi e d’armi scintillanti di rubini e di smeraldi; e infine due cammelli consacrati, uno dei quali porta il Corano e l’altro una reliquia della Kaaba.

Passato il corteo del gran visir, scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli spettatori fuggono, il cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta mulinando le scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di lance, di pennacchi e di spade, tra uno sfolgorio abbagliante di caschi d’oro e d’argento, sotto un nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei Sultani, il re dei re, il distributore delle corone ai principi del mondo, l’ombra di Dio sulla terra, l’imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero, della Rumelia e dell’Anatolia, della provincia di Sulkadr, del Diarbekir, del Kurdistan, dell’Aderbigian, dell’Agiem, dello Sciam, di Haleb, d’Egitto, della Mecca, di Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell’Arabia e dell’Yemen e di tutte le altre provincie conquistate dai suoi gloriosi predecessori ed augusti antenati o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada fiammeggiante e trionfatrice. Il corteo solenne e tremendo passa lentamente, aprendo a quando a quando un piccolo spiraglio; e allora s’intravvedono i tre pennacchi imperlati del turbante del Dio, il viso pallido e grave e il petto lampeggiante di diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata s’allontana, le scimitarre minacciose s’abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la visione è svanita.

Al corteo imperiale tiene dietro una folla d’ufficiali di corte, di cui uno porta sul capo lo sgabello del Sultano, un altro la sciabola, un altro il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera d’argento, un sesto la caffettiera d’oro; passano altre schiere di paggi; passa il drappello degli eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti di caffettani candidi; passano le cento carrozze dell’arem dalle ruote inargentate, tratte da buoi inghirlandati di fiori o da cavalli bardati di velluto, e fiancheggiate da una legione d’eunuchi neri; passano trecento schiere di mule che portano i bagagli e il tesoro della corte, passano mille cammelli carichi di acqua, passano mille dromedari carichi di viveri; passa un esercito di minatori, d’armaioli e d’operai di Stambul, accompagnati da bande di buffoni e di giocolieri; e in fine passa il grosso dell’esercito combattente: le orte dei giannizzeri, i silidar gialli, gli azab porporini, gli spahí dalle insegne rosse, i cavalieri stranieri dagli stendardi bianchi, i cannoni che vomitano blocchi di marmo e di piombo, le milizie feudatarie dei tre continenti, i volontari selvaggi delle estreme provincie dell’impero; nuvoli di bandiere, selve di pennacchi, torrenti di turbanti, valanghe di ferro, che vanno a rovesciarsi sull’Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di sé un deserto sparso di macerie fumanti e di piramidi di teschi.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Editoria: I romanzi di Lella Dellea in promozione estiva

Cerchi qualcosa di piacevole da leggere durante la tua prossima vacanza? 
Durante l’estate senti l’esigenza di rilassarti e vorresti leggere qualcosa di piacevole ma non “vuoto”?
I romanzi dell’autrice Lella Dellea fanno al caso tuo e sono in promozione per tutta l’estate!

Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù, Un racconto ironico leggero e frizzante

Immagina tre ragazze che si accingono ad affrontare una settimana di prova in una libreria molto particolare.
In soli sette giorni avranno modo di conoscersi e di vivere mille piccole avventure e disavventure, senza contare il finale con il botto!
La breve storia di Milena, Colette e Bruna (dette Mimì, Cocò e Bubù) è un esempio di come la vita, tra un sorriso e l’altro, può riservarci continue sorprese.
“Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù” ti strapperà un sorriso, o più di uno, attraverso un racconto verosimile e paradossale allo stesso tempo, con sottile ironia e tanta allegria.

Un racconto leggero ironico e divertente, per rilassarsi e sorridere.

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Conquiste, un romanzo originale, una storia intrigante raccontata a 5 voci

I cambiamenti fanno paura, ma sono necessari per crescere e cambiare.
Con questo spirito Stella, una giovane mamma sceglie di accettare un lavoro in un paesino delle Prealpi Lombarde e di iniziare una nuova avventura.

Circondata da vecchi e nuovi amici, lei affronterà situazioni inaspettate, dovrà fare i

conti con uno spasimante particolarmente insistente e barcamenarsi tra innumerevoli conquiste.

Questo romance contemporaneo è appunto la narrazione di uno spaccato di vita narrata da cinque voci

differenti (Stella, Laura, Giulia, Paolo e Michele), per avere un quadro sfaccettato e

completo degli eventi.

Il termine “Conquiste” racchiude molti significati, anche mettersi alla prova, superare i propri limiti, sperimentare qualcosa di nuovo è una conquista.

Ė con questo spirito che l’autrice ha voluto raccontare la storia da ben 5 voci differenti. 

Un’impresa ardua, ma anche intrigante e istruttiva.
“Conquiste” è un romanzo molto originale nella trama, nei protagonisti, nei contenuti e nelle emozioni che Lella Dellea ha voluto trasmettere.

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Lella (Raffaella) Dellea – biografia

Nata e cresciuta sulle sponde del Lago Maggiore ama leggere e scrivere da quando ne ha memoria.
Si occupa di crescita personale, formazione e content writing.
Oltre ad una serie di racconti brevi e a una raccolta di poesie ha pubblicato dei romanzi rosa: “Con l’Africa…nel cuore” nel 2018 e “Conquiste” nel 2021.
A dicembre 2022 ha pubblicato anche il racconto ironico “Le avventure di Mimì, Cocò e Bubù”.


Sara Bontempi
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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli eunuchi

9- La vita a Costantinopoli – Gli eunuchi

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

8


Ma vi sono altri esseri, a Costantinopoli, che fanno più compassione dei cani, e son gli eunuchi, i quali, come s’introdussero fra i turchi malgrado i precetti formali del Corano che condannano questa infame degradazione della natura, sussistono ancora, malgrado la legge recente che ne proibisce il traffico, poiché è più forte della legge la scellerata avidità dell’oro che fa commettere il delitto, e l’egoismo spietato che se ne vale. Questi disgraziati s’incontrano ad ogni passo nelle strade, come s’incontrano, ad ogni passo nella storia. In fondo a ogni quadro della storia turca, campeggia una di queste figure sinistre, colle fila d’una congiura nel pugno; coperto d’oro o intriso di sangue, vittima, o favorito, o carnefice, palesemente od occultamente formidabile, ritto come uno spettro all’ombra del trono, o affacciato allo spiraglio d’una porta misteriosa. Così per Costantinopoli, in mezzo alla folla affaccendata dei bazar, tra la moltitudine allegra delle Acque dolci, fra le colonne delle moschee, accanto alle carrozze, nei piroscafi, nei caicchi, in tutte le feste, in tutte le folle, si vede questa larva d’uomo, questa figura dolorosa, che fa colla sua persona una macchia lugubre su tutti gli aspetti ridenti della vita orientale. Scemata l’onnipotenza della corte, è scemata la loro importanza politica, come rilassandosi la gelosia orientale, è diminuita la loro importanza nelle case private; i vantaggi del loro stato son quindi molto scaduti; essi non trovano più che assai difficilmente nella ricchezza e nella dominazione un compenso alla loro sventura; non si trovano più i Ghaznefer Agà che consentono alla mutilazione per diventar capi degli eunuchi bianchi; tutti sono ora certamente vittime, e vittime senza conforti; comprati o rubati bambini, in Abissinia od in Siria, uno su tre sopravvissuti al coltello infame, e rivenduti in onta alla legge, con una ipocrisia di segretezza, più odiosa d’un aperto mercato. Non c’è bisogno di farseli indicare, si riconoscono all’aspetto. Son quasi tutti d’alta statura, grassi, flosci, col viso imberbe e avvizzito, corti di busto, lunghissimi di gambe e di braccia. Portano il fez, un lungo soprabito scuro, i calzoni all’europea e uno staffile di cuoio d’ippopotamo, che è l’insegna del loro ufficio. Camminano a lunghi passi, mollemente, come grandi bambini. Accompagnano le signore a piedi o a cavallo, davanti e dietro le carrozze, quando uno, quando due insieme, e rivolgono sempre intorno un occhio vigilante, che al menomo sguardo o atto irriverente di chi passa, piglia un’espressione di rabbia ferina che mette paura e ribrezzo. Fuor di questi casi, il loro viso o non dice assolutamente nulla, o non esprime che un tedio infinito d’ogni cosa. Non mi ricordo d’averne visto ridere alcuno. Ce ne sono dei giovanissimi, che par che abbiano cinquant’anni; dei vecchi, che sembrano adolescenti invecchiati in un giorno; dei molto pingui, tondi, molli, lucidi, che sembrano enfiati o ingrassati apposta come bestie suine; tutti vestiti di panni fini, puliti e profumati come damerini vanitosi. Ci sono degli uomini senza cuore che passando accanto a quei disgraziati li guardano e ridono. Costoro credono forse che, essendo così come sono fin dall’infanzia, non comprendano la loro sventura. Si sa invece che la comprendono e che la sentono; ma se anche non si sapesse, come si potrebbe dubitarne? Non appartenere ad alcun sesso, non essere che una mostra d’uomo; vivere in mezzo agli uomini e vedersene separati da un abisso; sentir fremere la vita intorno a sé, come un mare, e dovervi rimanere in mezzo, immobili e solitari come uno scoglio; sentire tutti i propri pensieri e tutti i sentimenti strozzati da un cerchio di ferro che nessuna virtù umana potrà mai spezzare; aver perpetuamente dinanzi un’immagine di felicità, a cui tutto tende, intorno a cui tutto gira, di cui tutto si colora e s’illumina, e sentirsene smisuratamente lontani, nell’oscurità, in un vuoto immenso e freddo, come creature maledette da Dio; essere anzi i custodi di quella felicità, la barriera che l’uomo geloso mette fra i suoi piaceri ed il mondo, il puntello con cui assicura la sua porta, il cencio con cui copre il suo tesoro; e dover vivere tra i profumi, in mezzo alle seduzioni, alla gioventù, alla bellezza, ai tripudi, colla vergogna sulla fronte, colla rabbia nell’anima, disprezzati, scherniti, senza nome, senza famiglia, senza madre, senza un ricordo affettuoso, segregati dall’umanità e dalla natura, ah! dev’essere un tormento che la mente umana non può comprendere, come quello di vivere con un pugnale confitto nel cuore. E questa infamia si sopporta ancora, questi sventurati passeggiano per le vie di una città d’Europa, vivono in mezzo agli uomini, e non urlano, non mordono, non uccidono, non sputano in viso all’umanità codarda che li guarda senza arrossire e senza piangere, e fa delle associazioni internazionali per la protezione dei gatti e dei cani! La loro vita non è che un supplizio continuo. Quando le donne non li trovano arrendevoli ai loro intrighi, li odiano come carcerieri e come spie, e li torturano con una civetteria crudele, sino a farli diventar furiosi o insensati, come il povero eunuco nero delle Lettere persiane quando metteva nel bagno la sua signora. Tutto è sarcasmo per loro: portano dei nomi di profumi e di fiori, per allusione alle donne di cui sono custodi: sono possessori di giacinti, guardiani di gigli, custodi di rose e di viole. E qualche volta amano, gli sciagurati! perché in loro delle passioni sono spenti gli effetti, non le cause; e son gelosi, e si rodono e piangono lagrime di sangue; e qualche volta, quando uno sguardo procace si fissa in volto alla loro donna, e s’accorgono che è corrisposto, perdono la ragione e percuotono. Al tempo della guerra di Crimea un eunuco diede una frustata in viso ad un ufficiale francese, e questi gli spaccò il cranio con una sciabolata. Chi può dire che cosa soffrano, come li desoli la bellezza, come li strazi un vezzo, come li trafigga un sorriso, e quante volte mentre al loro orecchio arriva il suono d’un bacio, la loro mano afferra il manico del pugnale! Non è meraviglia che nel vuoto immenso del loro cuore non attecchiscano per lo più che le passioni fredde dell’odio, della vendetta e dell’ambizione; che crescano acri, mordaci, pettegoli, pusillanimi, feroci; che siano o bestialmente devoti o astutissimamente traditori, e che quando sono potenti, cerchino di vendicarsi sull’uomo dell’affronto che fu fatto in loro alla natura. Ma per quanto siano intristiti, sentono sempre nel cuore il bisogno prepotente della donna, e poiché non possono averla amante, la cercano amica; si ammogliano; sposano delle donne incinte, come Sunbullù, il grand’eunuco di Ibraim I, per avere un bambino da amare; si fanno un arem di vergini, come il grand’eunuco di Ahmed II, per avere almeno lo spettacolo della bellezza e della grazia, l’amplesso affettuoso, un’illusione d’amore; adottano una figliuola per aver un seno di donna su cui chinare la testa quando son vecchi, per non morire senza sapere che cos’è una carezza, per sentire nei loro ultimi anni una voce amorosa dopo aver sentito per tutta la vita il riso dell’ironia e del disprezzo; e non son rari quelli che, arricchiti alla corte o nelle grandi case, dove esercitano insieme l’ufficio di capi degli eunuchi e d’intendenti, si comprano, vecchi, una bella villetta sul Bosforo, e là cercano di dimenticare, di sopire il sentimento della propria sventura nell’allegrezza delle feste e dei conviti. Fra le molte cose che mi furono dette di questi infelici, una mi è rimasta viva più di tutte nella memoria; ed è un giovane medico di Pera che me l’ha raccontata. Confutando gli argomenti di chi crede che gli eunuchi non soffrano: – Una sera, – mi disse, – uscivo dalla casa d’un ricco musulmano, dov’ero andato a visitare per la terza volta una delle sue quattro mogli malata di cuore. All’uscire come all’entrare m’aveva accompagnato un eunuco gridando le solite parole: – donne, ritiratevi! – per avvertir signore e schiave che un uomo era nell’arem, e che non dovevano lasciarsi vedere. Quando fui nel cortile, l’eunuco mi lasciò, ed io mi diressi solo verso la porta. Nel punto che stavo per aprire, mi sentii toccare il braccio, e voltandomi, mi vidi dinanzi, così tra il chiaro e lo scuro, un altro eunuco, un giovanetto di diciotto o vent’anni, di aspetto simpatico, che mi guardava fisso con gli occhi umidi di lagrime. Gli domandai che cosa voleva. Titubò un momento a rispondere, poi m’afferrò una mano con tutt’e due le mani, e stringendomela convulsivamente mi disse con una voce tremante, in cui si sentiva un dolore disperato: – Dottore! Tu che sai un rimedio per tutti i mali, non ne sapresti uno per il mio? – Io non so dire quello che produssero in me queste semplici parole; volli rispondere, mi mancò la voce, e non sapendo né che fare né che dire, apersi bruscamente la porta e fuggii. Ma per tutta quella sera e per molti giorni dopo, mi parve di vedere quel giovane e di sentir quelle parole, e più d’una volta dovetti far forza a me stesso per non piangere di pietà. – O filantropi, pubblicisti, ministri, ambasciatori, e voi, signori deputati al Parlamento di Stambul e senatori della mezzaluna, levate un grido, in nome di Dio, perché questa sanguinosa ignominia, questa orrenda macchia dell’onore umano, non sia più nel ventesimo secolo che una memoria dolorosa come le carneficine della Bulgaria.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.